"Ommo se nasce, brigante se more", recita il ritornello di una delle più celebri canzoni sul brigantaggio della tradizione musicale italiana. In mezzo a questo nascere e morire senza scampo c'era una vita vissuta tra scorribande, soprusi e lotte, tante, per la libertà, il potere e la sopravvivenza. Quel periodo così affascinante e storicamente divisivo oggi rivive in una serie Netflix che si chiama Briganti: in streaming dal 23 aprile e scritta dal collettivo GRAMS* (quello di Baby), la serie racconta in chiave pop le avventure dei briganti che affollavano le campagne del Meridione a metà Ottocento, alcuni realmente esistiti come Filomena Pennacchio, interpretata nella serie da Michela De Rossi. Trentuno anni, romana, una lunga gavetta a teatro, il debutto con i fratelli D'Innocenzo (La terra dell'abbastanza), il ruolo nella fiction I topi con Antonio Albanese e una carriera già lanciata su binari internazionali, Michela ci ha detto che Briganti è una serie corale - nel cast anche Ivana Lotito, Marlon Joubert e Matilda Lutz - che omaggia il genere western pur senza voler essere un documentario o un biopic su Filomena. «Il brigantaggio è un pretesto narrativo per parlare di rivalsa. E di indipendenza». Con lei abbiamo parlato di questo ruolo che tanto le somiglia, della voce degli outsider e della forza di storie antiche.

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Nicolò Parsenziani
Fotografia Nicolò Parsenziani

Filomena si ribella a un destino di violenza per abbracciarne uno che la rende protagonista. Come si entra nella mente di una donna così determinata?

    «Quando si interpreta un ruolo il rischio è sempre quello di coprire il personaggio, di rileggerlo in una chiave diversa da quanto è scritto sul copione. Da attrice trovo che sia fondamentale trovare un equilibrio fra quello che ci si immagina o si sa del personaggio e i pezzi del puzzle di cui è fatta una sceneggiatura. Io ho un approccio alla recitazione molto fisico quindi sono partita dal corpo, più che dalla mente di Filomena».

    Ma un personaggio realmente esistito è più facile o complesso da interpretare?

    «Paradossalmente più semplice. Per costruire il personaggio, oltre aver letto molti libri sul brigantaggio e aver guardato i documentari sul tema, sono partita da una foto, il più celebre scatto di Filomena: c'è lei che guarda verso l'obiettivo con sguardo truce, corvino, da rapace. Dentro quegli occhi c'è tutto un mondo. Il mio viaggio nella storia di Filomena è iniziato così, da quel fotogramma, da quello sguardo. E sul set ho lavorato molto con gli occhi per rendere la sua tenacia».

    La scena in cui si taglia i capelli recidendo il legame col suo passato, da moglie abusata a brigantessa libera, parla anche un po' di te.

    «Sì, perché i capelli li ho tagliati davvero. Non avevo mai fatto un cambio così radicale per un personaggio. All'epoca dei briganti se le donne portavano i capelli corti lanciavano un gesto forte, di indipendenza. E io avevo bisogno di sentire la forza di quel cambiamento su di me, è stato importantissimo guardarmi la mattina e sentirmi diversa proprio come è accaduto a Filomena. Dopo mi sono sentita molto più sicura: questo è il personaggio più simile a me che io abbia mai interpretato».

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    FRANCESCO BERARDINELLI/NETFLIX//Netflix
    La scena in cui Filomena abbraccia la sua nuova vita da brigantessa dopo un’infanzia e un’adolescenza di soprusi

    Qual è il punto di forza di questa serie?

    «Io penso che sia un racconto sul potere, su cosa ti fa quando lo cerchi e su come diventi quando lo ottieni. Anche per Filomena, quando comincia a prendere la misura del suo nuovo ruolo di brigantessa, il potere diventa una droga. Magari si parte con gli intenti giusti, ma poi una volta che lo si raggiunge bisogna ricordarsi il motivo per cui si è voluto quel potere. La voglia di vendetta, indipendenza e riscatto di Filomena a un certo punto prende il sopravvento su di lei ed è questo che la rende umana».

    Come hai iniziato a fare l'attrice?

    «Ho sempre saputo che questo sarebbe stato il mio mestiere, sin da piccola. Dopo il liceo ho frequentato l'accademia di arte drammatica, poi ho iniziato a lavorare nel teatro, ho fatto workshop, ho studiato all'estero, ho fatto molta clowneria, tanto teatro di figura. Poi, per caso, ho cominciato al cinema e alla tv, anche se il teatro è una passione viscerale, mi manca da impazzire».

    Prima di Briganti hai lavorato in grandi produzioni internazionali come il film prequel sui Sopranos (I molti santi del New Jersey) e la serie tv australiana a tema empowerment (While the Men Are Away). Ci sono differenze tra il lavorare in Italia e all'estero?

    «Quando fai un provino all’estero, anche se non rispondi ai canoni fisici richiesti per il personaggio, tendono già a immaginarti diversa, magari ti danno una possibilità anche se non rispetti i requisiti perché sanno di poterti plasmare, almeno fisicamente. In Italia invece già ai provini devi avvicinarti all'idea estetica ricercata per il ruolo: non a caso siamo i maestri del realismo. In America invece sono i maghi della finzione, a loro piace molto cambiare gli attori fino a renderli irriconoscibili».

    Hai anche spaziato tra diversi generi. Ma qual è quello che ti piace di più?

    «Mi piace tanto la recitazione brillante, i personaggi ironici. Credo di avere una predisposizione per il comico. Mi fa sentire più sicura».

    Tornando a Briganti, è una serie che parla di outsider. Tu ti sei mai sentita così?

    «Come si dice a Roma, io non tengo 'un cecio in bocca'! Sono sempre stata una voce fuori dal coro, mi madre mii diceva sempre che dovevo trovare la misura, non dire sempre ciò che penso senza filtri. Ho un senso della giustizia molto forte, essere un'outsider fa parte del mio carattere. Ma sto capendo ora che per stare al mondo bisogna ogni tanto scendere a compromessi, trovare una via di mezzo senza perdere me stessa».