Sognare corpi liberi. È quello che fa Dalila Bagnuli con l'Antimanuale della Bellezza, il suo primo libro uscito per Edizioni Sonda lo scorso 13 giugno. Uno strumento che, forte di antenati come Il mito della bellezza di Naomi Wolf (o del più recente Manuale per ragazze rivoluzionarie di Giulia Blasi), mira a distruggere i canoni di bellezza, mostrando inganni e strategie subdole che si nascondono fra industria della moda, pubblicità e rappresentazione delle donne (tuttalpiù considerate, ancora oggi, come oggetto per il piacere e lo sguardo maschile). Con il suo volume, la content creator e digital strategist vuole liberarsi dalla pressione estetica e decostruire la grassofobia interiorizzata e la diet culture, un obiettivo che arriva soprattutto dall'adesione ai movimenti politici e sociali dell'attivismo body positive e del femminismo intersezionale. «Siamo le nipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare», si legge di frequente, l'8 marzo, sui cartelli delle manifestazioni. Bagnuli mette al rogo il concetto stesso di bellezza e il valore a esso associato, districando tutti quegli intrecci invisibili, quegli incroci fra patriarcato e capitalismo che vanno a costituire, e imprimere nel tessuto sociale, un ideale femminino tanto irrealistico e dannoso quanto ricercato, anche dalle donne stesse. Un altro passo verso una teoria femminista fruibile e non esclusiva – relegata ad ambiti accademici o riservata a chi si può permettere un'istruzione universitaria – ma che diventa, sempre di più, di tutti e per tutti. Ai corpi invisibilizzati Dalila Bagnuli parla anche nel suo podcast, Sono Piena. Cosmopolitan Italia ha incontrato l'autrice e le ha fatto alcune domande.

Dalila Bagnuli, Anti Manuale della Bellezza

Dalila Bagnuli, Anti Manuale della Bellezza

Dalila Bagnuli, Anti Manuale della Bellezza

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Come mai il tuo libro si intitola Anti Manuale della Bellezza?

«Lo scopo di questo libro non è allargare il canone di bellezza, ma distruggerlo. Ho cercato di dare al lettore gli strumenti per rivalutare il concetto, ma soprattutto il valore, che diamo alla bellezza, per abbandonare sempre di più il desiderio di rientrare negli standard imposti dalla società e uscire da quel sistema di regole che ci porta, quotidianamente, a modificare il nostro corpo per essere apprezzati dal mondo. Sappiamo perfettamente che la bellezza – e quando uso questo termine faccio riferimento a quella canonica, non alle nostre personali definizioni di bellezza, che invece sono diverse l'una dall’altra – stabilisce il nostro valore sociale (quanto è effettivamente "valida", "talentuosa" una donna, se poi non è "bella"?, nda). È importante per me sottolineare quanto questo libro cerchi di distruggere, decostruire, scomporre, piuttosto che creare ulteriori strutture. In questo senso, è un Anti Manuale della bellezza».

A chi è rivolto?

«A tutte quelle persone che si sentono sole e che, in qualche modo, provano una pressione estetica nei confronti del loro corpo, si pensano inadeguate o sognano di essere qualcun'altro. Senza magari capire l’importanza della diversità e il potenziale che i loro corpi e le loro teste hanno in questo mondo super grigio e omologato».

    Da quando sei attivista, hai fatto un percorso di riappropriazione del tuo corpo. Che significa?

    «Con riappropriazione del proprio corpo, intendo riuscire a prendere consapevolezza del fatto che molte delle scelte che noi donne attuiamo tutti i giorni nei confronti della nostra estetica non sono frutto del nostro pensiero o ragionamento, ma sono, in qualche modo, causate da un’imposizione sociale, per soddisfare lo sguardo altrui. Quante volte ci siamo sentite a disagio nel metterci un abbigliamento più casual in un contesto più elegante? Oppure ancora, quanto spesso abbiamo iniziato una dieta perché qualcuno ci ha detto di farlo, e non per un nostro reale desiderio? E quando ti rendi conto che il tuo corpo è un oggetto in balia del mondo sono quattro schiaffi potenti in faccia: tu non sei di tua proprietà, il tuo corpo non ti appartiene, non ti stai autogestendo e autodeterminando, non stai decidendo per il tuo corpo in maniera libera perché ne hai perso il contatto diretto. Riuscire a capire quali sono tutti i quei punti su cui noi donne non abbiamo il controllo è un momento fondamentale nel percorso femminista».

    Ci hai parlato della pressione estetica che le donne subiscono. Come siamo arrivati a questi standard di bellezza irraggiungibili e irrealistici?

    «La pressione estetica ci viene costantemente sbattuta in faccia e nelle orecchie da televisione, pubblicità e giornali. L’industria della bellezza ne è un grandissimo mandante: siamo costantemente in ascolto di frasi che ci dicono quanto il nostro corpo sia, in qualche modo, sbagliato, per poi venire abbindolate dal nuovo prodotto che ci promette di colmare quell’insicurezza che, in realtà, è stata la pubblicità stessa a generare in noi.

    Mancando nei mass media una rappresentazione realistica delle donne – sono quasi sempre super modelle a cui la bellezza "capita" (perché il compito delle donne nella nostra società è quello di essere belle e attraenti) – ci sentiamo inadeguate, invisibili. Pensiamo che il nostro corpo abbia bisogno di aggiustamenti; in questo modo si spiegano i picchi di chirurgia estetica degli ultimi anni, l’uso massivo dei filtri su Instagram e sui social network, di Photoshop nelle fotografie sulle riviste, di tutte quegli strumenti che modificano il corpo e ci danno l’impressione, anche se soltanto momentanea, di essere finalmente all’interno di quel benedetto standard di bellezza».

    Body positivity è ormai un termine ampiamente diffuso nel tessuto sociale. Troppo spesso, però, se ne fraintende il vero significato.

    «Esiste una body positivity attuale, politica e sociale, che ha le sue radici nel movimento della Fat Accepatance (liberazione dei corpi grassi) – nato a New York sul finire degli Anni '60 – e una body positivity mainstream, un fenomeno degli ultimi anni. Fondamentalmente, la differenza tra le due è il forte rimando al corpo come strumento politico. La body positivity mainstream è quella che inonda le pubblicità e le campagne di qualsiasi brand rivolto al femminile con slogan assolutamente vuoti come: "Amati" o "Sei bellissima così come sei", cercando di allargare il canone; che ci fa sentire escluse dal movimento che, invece, dovrebbe abbracciarci. La body positivity mainstream è incentrata sul vendere e non sull’includere: promuovendo un prodotto con cui riusciremo ad amarci sempre di più e correggere i "difetti", l'unico messaggio si comunica è che da sole, così come siamo, non possiamo amarci. Quello che chiede, al contrario, la body positivity attuale è il rispetto verso tutti i tipi di corpi. E se la Fat Acceptance degli inizi parlava principalmente ai corpi grassi, ora ci si rivolge a tutti i tipi di corpo, a tutte quelle soggettività che non vengono mai rappresentate, ma sempre discriminate. E quindi: i corpi trans, non binari, neri, disabili, autistici e grassi».

      A un certo punto dell’Anti Manuale racconti la tua esperienza di shopping nei negozi di alcuni brand che si definiscono – o utilizzano slogan – inclusivi. Ci racconti il pinkwashing?

      «La deriva della body positivity mainstream ha colpito i brand con target femminile, che vi hanno intravisto una grande opportunità di vendita: questi sono saliti sul carro, senza veramente sposarne la causa. Spesso, quando un brand dichiara di essere inclusivo verso le taglie più grandi, affermando di avere reggiseni che arrivano fino alla settima, nel loro negozio è disponibile solo la quarta; ti dicono che vestono fino alla 54, ma fisicamente trovi solo l’XL. La soluzione sarebbe quella di comprare online, ma non fa altro che farti sentire, ancora una volta, esclusa e presa in giro (precludendoti oltretutto un’esperienza importante di socializzazione con gli amici come quella dello shopping). Certo, le persone grasse possono avere il privilegio di comprare i vestiti di questi brand, ma soltanto dal divano di casa loro, nascoste. Così che non associno la propria immagine al quella del brand, ma soprattutto, che nessuno associ all'immagine del brand quella di un corpo grasso. Questo è il pinkwashing, che va a braccetto con greenwashing e rainbowashing. Sono – letteralmente – una pennellata di vernice inclusiva che cerca di nascondere il marcio del patriarcato».

      Come spieghi nel tuo libro, la pressione estetica si trasforma, per le persone grasse, in discriminazione. Perché al giorno d’oggi facciamo più fatica a riconoscere frasi e comportamenti grassofobici rispetto a quelli relativi ad altre discriminazioni?

        «Partiamo dal presupposto che siamo tutti grassofobici. La grassofobia è radicata nella nostra cultura (l'abbiamo interiorizzata), ma è importante saperla riconoscere. L'insulto – solo una piccolissima parte di quella che è la discriminazione – è sempre violento. Se qualcuno ci insulta per il nostro corpo, sappiamo che è sbagliato e che non si fa: è bodyshaming. Ma se una persona, che non ti conosce e che non è il tuo medico, viene da te e ti dice: "Il tuo corpo non è in salute, dovresti dimagrire", è altrettanto problematico. Facciamo fatica a non vedere la grassofobia come discriminazione vera e propria per via della narrazione che ha sempre dipinto le persone grasse come pigre, senza forza di volontà, incapaci di prendere in mano la propria vita o di volersi bene. La società non fa altro che dire alle persone grasse che, se vengono discriminate, è perché un po’ se la sono andata a cercare. Ci insegnano anche che, se vogliamo, possiamo raggiungere un corpo conforme agli standard, quando in realtà non è così: le diete – quelle della diet culture – sono uno strumento fallimentare nel 90% dei casi. Tutto ciò, in realtà, non fa altro che privare le persone grasse del diritto (intrinseco per chiunque) di autodeterminazione del proprio corpo: non tutte le persone grasse vogliono dimagrire e non tutte le persone grasse stanno male. Dovremmo fare pace con il fatto che al mondo esistono vari tipi di corpo, che siamo tutti diversi e che commentare la fisicità degli altri è, sempre e comunque, sbagliato. Anche se è difficile riuscire a smettere, perché ci è sempre stato insegnato che la grassezza è uguale alla bruttezza. E che un brutto (o un grasso) non può essere davvero felice».

        Che cos'è per te la diet culture?

        «Un sistema tossico normalizzato. Per noi è consuetudine vedere in tv la pubblicità di una barretta al cioccolato in grado di sostituire un pasto (un concetto, quello della sostituzione di un pasto già malato in partenza), che può portare a disturbi del comportamento alimentare. La diet culture è quel sistema che ti dice: "Tu sei una persona grassa, qualsiasi problema di salute che hai è dovuto a questo, la soluzione per te è la nuova dieta…. Se vuoi puoi comprare anche il mio libro". Non c’entra nulla con il significato reale della parola "dieta", e cioè, imparare a mangiare con consapevolezza, in maniera equilibrata e sana. Quando una persona grassa pubblica una foto in bikini su Instagram, viene sommersa da commenti che sottolineano quanto non sia in salute. Ma non è la salute che importa o che dà fastidio: è il fatto stesso di uscire fuori dalle regole di quel paradigma per cui la donna non può mostrare il suo corpo irruento al difuori dell'ordine prestabilito, o sul feed altrui, a dare fastidio. Il disordine da fastidio alla cultura della dieta».

        Parlare del corpo come strumento politico. Ci spieghi in che modo è una questione femminista?

        «Dal momento in cui ci rendiamo conto di quanto il nostro corpo ci determini all'interno della società – ovverosia, di quanto racconti della situazione attuale delle donne, fra diritto all’aborto, a vestirsi come si vuole (anche di notte, per abitare, libere, le nostre strade), a non sentirsi dei pezzi di carne ogni volta che si sale su un mezzo di trasporto o a non dovere per forza ricevere il titolo di “Miss”, per essere considerate "valide" – non possiamo pensare sia qualcosa di superficiale. Sul corpo delle donne, vengono applicate una serie di discriminazioni e di limiti, che restringono la libertà di autodeterminarsi nel mondo. E cosa c’è di più femminista di riappropriarsi della libertà che ci hanno tolto?».

        Cosa diresti invece a chi pensa ancora che femminista sia una brutta parola? O a chi non vede un problema nell'imposizione di canoni estetici dall'esterno?

        «Il femminismo non è il contrario di maschilismo: non è una lotta per la prevaricazione della donna sull'uomo, si chiede semplicemente uguaglianza. Chimamanda Ngozi Adichie, una grande scrittrice, diceva: "Dovremmo essere tutti femministi", (poi è diventato anche il titolo di un suo libro). Il femminismo infatti una questione che tocca tutti, donne e uomini (si parla, solo per semplificare, in termini di binarismo di genere, che è comunque un costrutto sociale, nda), indipendentemente dal genere, in quanto combatte il patriarcato, un sistema sociale incredibilmente dannoso anche per i secondi. La nostra società non ha solo un problema con le donne, ma con tutto il femminile. Tutti gli atteggiamenti considerati femminili secondo lo stereotipo, infatti, vengono condannati se assunti da un maschio. Alle persone che mi dicono: "Io non sono femminista", io rispondo che noi stiamo combattendo anche per loro».

        A tante persone piace truccarsi, vestirsi, scegliere con precisione (o meno), outfit e look che le rappresentino. Qual è il compromesso fra ricerca della bellezza e liberazione dal desiderio di piacere?

          «Credo che non esista un vero e proprio compromesso, penso che faccia tutto parte del percorso di riappropriazione. Dal momento in cui ci si rende conto di truccarsi o vestirsi per piacere a uno sguardo maschile, si fa di tutto per riavere il controllo su questo determinato ambito della vita. E quindi si iniziano a modificare determinati comportamenti. Ti porto il mio esempio: io ho iniziato a truccarmi quando sono diventata femminista; per me il make-up è un mezzo di espressione. Lo faccio soprattutto quando sono a casa, mentre quando esco, spesso non mi trucco. Quindi è proprio una scelta mia personale, non mi interessa essere guardata dalle persone, ma mi interessa sentirmi bene nella mia emozione e nella mia sensazione del momento. Credo che sia proprio qui la chiave: scegliere di gestire questo ambito per sé stessi e non per gli altri. E lo si può fare semplicemente guardandosi con occhi puliti, cercando di analizzarsi spogliando il nostro sguardo da tutti quei giudizi esterni e preconcetti che abbiamo sempre assimilato. Le donne possono sentirsi belle nella loro naturalezza oppure con un trucco super coprente, senza per questo doversi pensare oggetto di piacere per qualcun altro. Ma, secondo me, lo si può fare soltanto attraverso un percorso di decostruzione. E non è per niente facile».

                Headshot of Elena Quadrio
                Elena Quadrio

                Mi piace ricercare e sperimentare, lo faccio da sempre attraverso il beauty, ma soprattutto la scrittura. Di solito per descrivermi lascio parlare la mia carta astrale: sole in Capricorno, luna e ascendente in Aquario. Tre cose su di me: sono cresciuta innamorandomi della letteratura, ma sogno ancora di fare l’attrice e ogni tanto dico in giro di esserlo. Persona preferita: Audre Lorde.