In un recente post su Instagram, Britney Spears ha raccontato di aver perso il suo bambino, figlio suo e del fidanzato Sam Asghari. L'aborto spontaneo, avvenuto nei primi mesi di una gravidanza annunciata nelle scorse settimane con grandissima felicità dalla popstar, è stato descritto con le parole del lutto, della perdita e del dolore. Chi scrive ha vissuto un'esperienza simile a Britney (che non è l'unica celeb ad aver raccontato apertamente la sofferenza per la perdita di un bambino, in qualsiasi fase della gravidanza sia avvenuta) lo scorso settembre: maggio, se tutto fosse andato bene, sarebbe stato il mese della nascita. Sarà, invece, un mese come un altro. Facciamo fatica a comprenderlo, ma, semplicemente, in certi casi, va così e basta.

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Le reazioni al post su Instagram di Britney non si sono fatte attendere. C'è chi l'ha criticata per aver annunciato la gravidanza troppo presto, in quei delicatissimi mesi in cui non c'è alcuna certezza del lieto fine e bisognerebbe tenere il segreto anche con le persone più care. Chi l'ha presa di mira perché si sta esponendo troppo così ubriaca di quella libertà faticosamente conquistata dopo anni di conservatorship da parte di suo padre. Chi, ancora, ha puntualizzato che certe cose non si dicono ad alta voce, soprattutto se si parla di dolore, che, in molte delle sue manifestazioni, dovrebbe rimanere privato.

L'arte di non mostrare il dolore

Reazioni simili erano state generate un po' ovunque dalla modella Chrissy Teigen e suo marito John Legend, quando avevano deciso di pubblicare le immagini dell'addio al loro bimbo Jack, morto a metà della gravidanza. Il lutto perinatale di Teigen e di Legend, cristallizzato in immagini in bianco nero, fotograficamente intense e di grande impatto emotivo, ha fatto il giro del mondo. E non tutti, vuoi perché certe cose fanno richiamano alla mente paure ed esperienze personali, vuoi perché guardare il dolore degli altri non è mai facile, o bello, o piacevole, hanno apprezzato questa apertura, considerata appunto, «esteticamente troppo perfetta», e quindi indelicata.

Per contro, esattamente come è successo dopo l'annuncio dell'aborto di Britney, moltissime persone, soprattutto donne, hanno trovato in quelle parole uno specchio in cui riflettersi, un sollievo per un dolore che non è semplice capire, figuriamoci spiegare.

Una perdita in moto perpetuo

Parlare di aborto è difficile, perché è complicato definirne i contorni: non ha un tempo verbale finito, una cosa che capita e si chiude di botto, ma è un evento che dura nel tempo, un lento fluire che accade mentre si è costretti ad andare avanti con la propria vita, che viene spesso annunciato con poco tatto dai medici e non si ha il tempo di elaborare proprio in virtù dei ritmi di vita che ci impongono di non stare mai male, non mostrare mai fragilità e sofferenze, non mettere a disagio il prossimo parlando del proprio dolore.

In una società in cui mostrarsi tanto sensibili complica le cose, in cui parlare di elaborazione del lutto, sofferenza, problemi e angosce provoca spesso chiusura e disagio, il tema dell'aborto spontaneo sembra essere al centro di questa perenne omissione. Se da un lato, dalla pandemia abbiamo imparato a parlare di ansia, depressione per la situazione contingente e sdoganato il ruolo della terapia psicologica, dall'altra facciamo molta fatica a parlare di sofferenza quando questa è privata. Questo sentirsi parte di qualcosa, anche se si tratta di qualcosa di brutto come sono stati gli ultimi due anni, aiuta a distribuire i carichi, fa sentire parte di una sorta di sofferenza condivisa e dunque più sopportabile. L'aborto spontaneo invece è, a tutti gli effetti, un dolore privato, spesso difficile da comprendere per la persona che lo vive sul suo corpo in primo luogo, poi dalla coppia che lo affronta, infine dal nucleo familiare allargato che ne viene a conoscenza. Per questo sembra più facile accollarsi questa perdita da soli, senza menzionarla mai con nessuno.

Parlare di aborto spontaneo è necessario

Ho sempre parlato apertamente del mio aborto, avvenuto come è successo a Britney Spear, nelle primissime fasi della gravidanza. Da un punto di vista fisico l'evento in sé non è stato doloroso, perché si è evoluto in quello che, senza test di gravidanza, avrei scambiato per ciclo mestruale. Dal punto di vista emotivo mi sono resa conto presto che, se si fosse presentata l'occasione, ne avrei parlato con tranquillità e onestà, cercando di ridimensionare il disagio degli altri.

Verbalizzare un addio

Verbalizzare una perdita fa male a chi dice e può farne (tanto) a chi ascolta. A lungo termine però aiuta a ricostruirsi, a distruggere l'idea che l'aborto spontaneo sia una una colpa o un marchio. Confrontandomi con altre donne sul tema ho scoperto ciò che manca per parlarne in modo sano, per supportare chi vive l'esperienza in modo efficace anche da un punto di vista sociale e collettivo: medici che comunichino la notizia con empatia; assistenza psicologica gratuita e immediata per chi subisce una perdita come questa, per esempio, senza minimizzazioni. Perdere un figlio, qualsiasi sia l'epoca gestazionale in cui avviene il lutto, non è un dolore che si può pesare, perché ognuno ha unità di misura totalmente diverse, difficilmente paragonabili. Ma può essere un carico che si divide se la diga si apre, mettendo da parte la semantica della vergogna e ponendo al centro l'onestà di un dibattito che fa bene su più livelli e alleggerisce, salva.