Questa è la storia di un parco, stanco di non poter godere dello stesso piacere di cui godono i ragazzi che lo abitano di giorno e di notte. In uno strano momento del 2000 pensò per la prima volta con fatuo orgoglio alla vana speranza di poter ottenere quello che vedeva nascosto tra i suoi alberi: il fragile amore di quella gioventù. La carne. I brividi. Questa è la storia di un parco a cui, in quell’anno, Rachele Bastreghi ha dato vita con la propria voce per la prima volta, presentando insieme ai Baustelle un disco autoprodotto e condiviso in maniera quasi carbonara, da cui sarebbe nato tutto il resto.

A 23 anni di distanza dalla “Canzone del parco” e dallo straordinario Sussidiario illustrato della giovinezza che la ospita, con tutti i premi vinti, le parentesi soliste, la colonna sonora per Giulia non esce la sera e il proselitismo di una generazione che non riusciva più a identificarsi nelle classifiche nazionali, il trio composto da Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini è tornato in tour con Elvis, anticipato dal singolo “Contro il mondo” nonché forse il disco in assoluto più rock del gruppo dopo Amen del 2008, prima toccando solo alcune tappe italiane e ora, per l’estate, spostandosi per tutta la penisola dalla prima data al No Borders Music Festival in Friuli Venezia Giulia fino a Catania (il 19 agosto a Villa Bellini). È nel comprensorio dei Laghi di Fusine, territorio su cui sorge il primo palco, che incontro la voce che ha plasmato l’adolescenza degli adolescenti che sono cresciuti nelle sue sfumature romantiche e tormentate, con l’aggressività di quell’età in cui si ha il bisogno di parlare e si trasformano in miti quelli che sono in grado di capire. Perché se la storia dei Baustelle ha inizio negli Anni ’90 tra i dintorni di Montepulciano, dove un gruppo di studenti universitari dai gusti musicali più diversi, Fabrizio Massara, Brasini alla chitarra, inizia a costruirsi intorno al talento di un giovane paroliere toscano, Bianconi, è solo con l’arrivo di Rachele, inizialmente tastiera e voce femminile, che il cerchio si completa. Così che ora sia la donna che di quella stessa storia ha sempre fatto parte a raccontarla attraverso i ricordi e le impressioni che la rincorrono. «Qualche settimana fa ho ripreso la macchina dopo anni che ce l’avevo in Toscana e non la toccavo. Avevo solo cd di Baustelle. Ho fatto il viaggio da sola, ne ho rimessi un po’. Mi sono ritrovata a sentire il live di Sussidiario e a un certo punto quando sulla “Canzone del parco” si sente l’ululato della gente mi sono emozionata. Già i viaggi di per sé ti portano a viaggiare con la mente, soprattutto quando con te non c’è nessuno. Pensa se ti conducono fino ai ricordi degli inizi. Ero molto diversa».

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Foto, Alessandro Treves. Styling, Michela D’Angelo. Claudio Brasini indossa, camicia Paul Smith, pantalone Massimo Alba. Rachele Bastreghi indossa, vintage Costume National, Alessandro Vasini hat e denim shaft. Francesco Bianconi indossa, Ami Paris.

Sedute su due sedie nel parco, qui al confine con la Slovenia, mi dice che la notte prima di vederci non è riuscita a dormire. Non è abituata, «di solito parla Francesco, io penso sempre di non essere all’altezza», e quando si è addormentata si è messa a riflettere su alcuni desideri recenti, un figlio, il pianoforte verticale che vorrebbe riportare nel suo appartamento, magari un cane, non è neanche preoccupata per il vento che nonostante il sole sembra trasportare la pioggia del giorno precedente (e infatti lo farà proprio a inizio concerto). «Forse i Baustelle sono questo, un momento aperto all’imprevisto», la voglia di sperimentare e divertire smuovendo le coscienze e dipingendo panorami, grazie a quella combinazione di impegno e disimpegno/sacro e profano che in tanti definiscono “baustellismo”. Durante il concerto in acustico si alza dal suo posto, si muove verso il pubblico sulle note di “Gran Brianza Lapdance Asso di cuori stripping club”, intonando «Voglio solo amare, voglio solo amare» dimostrando di essere l’anima ritmica dei Baustelle, possedendo la forza determinante di un architrave mentre intorno e sotto di lei il pubblico accetta volontariamente quanto insieme a Francesco sta chiedendo: sperimentare nelle strofe centrali l’abbandono alla libertà.

Penso che poche persone abbiano una visione chiara dell’esistenza come ce l’hanno i Baustelle e come ce l’ha Rachele Bastreghi. Spesso hanno solo idee o opinioni su come potrebbe essere. Invece con la Moda del lento, Amen, La Malavita, tutti i riferimenti, Louise Glück e gli altri, le esistenze splendide e drammatiche dei ragazzi musicate secondo la nostra tradizione melodica, il gruppo ha fotografato la complessità del mondo che avevamo internamente, abbracciandoci senza soffocarci, e ci ha fatto trionfare la speranza, la vita e l’amore quando noi in quel casino non riuscivamo a trovarli. «Non so cosa dire, guidami tu. C’è così tanto. Sicuramente perderò un pezzo. Da dove partiamo?»

Dall’inizio.

«Dicono di essersi ispirati ai Cute. Facevo ancora il liceo, conoscevo il fratello minore di Francesco. Suonavo da quando ero piccola e questa è stata una grande fortuna rispetto allo spaesamento che c’è ora tra i giovani, poter avere un sogno che ti trascini via dal resto già prima di diventare adulti. Suonavo nei vari gruppi della scuola, c’era questa voce che girava che durante i giorni di autogestione io portassi la chitarra e mi mettessi a cantare. Mi dice un giorno ti porto in sala prove, Francesco e gli altri cercano una ragazza. Vado. E mi trovo questi cinque uomini stranissimi, tutti diversi tra loro. Claudio era un metallaro e mi guardava storta».

Tu com’eri?

«Dovevi vedermi, amavo la moda militare e il grunge e volevo essere come Kurt Cobain. Sprovveduta, piena di entusiasmo, di energia e di incoscienza, con i capelli rasati come Dolores O'Riordan dei Cranberries. Ero coraggiosa ma senza pensarci, cosa che poi sono diventata un po’ meno quando ho sentito il peso del giudizio degli altri».

Sei entrata nel gruppo quando Sussidiario era praticamente già stato scritto, e lì è nato il duetto che si sarebbe poi trasformato nella vostra identità.

«Ero silenziosa, molto silenziosa, un po’ impaurita. Io sono impaurita nella vita ma sono un’osservatrice attenta. Sono entrata in punta di piedi, Francesco e Fabrizio si erano trovati all’Università e nella cameretta di casa avevano iniziato a scrivere e a creare. Io stavo in provincia, suonavo e sognavo nella mia stanza. Avevo diari pieni di pensieri che ora tengo in una scatola da qualche parte. Mi guardavo intorno nel mondo senza farmi domande. E poi c’era la musica. Pensa che da piccina mi dicevano, prima ancora che parlassi, che c’avevo un dito in bocca e con l’altra mano suonavo la tastiera che aveva mia zia, tutto a orecchio».

Avete composto poesie sul disastro, strutturando e insieme destrutturando l’immaginario dell'adolescenza su cui avete sempre insistito nei testi, portandoci a cantare singoli come “La Guerra è finita” o “Betty”, che si ammazzava per la strada. Come in un motivetto sotto la doccia, solo che quelle erano storie di ragazzi e ragazze che cedevano davanti al collasso del mondo. Qual era l’intento?

«Secondo me esistono contraddizioni che vivono in noi. Parli di una cosa come un suicidio, un trauma, preoccupazioni o tormenti che abitano tutti ma alleggerendoli, sai la gioia e il dolore, il sacro e il profano. Crei delle micce, in qualche modo, e queste micce si possono accendere. Tu quanti anni hai?»

Ventotto.

«Una bella età. Poi diventa peggio. Ci si appesantisce, capisci sempre di più, scavi sempre di più, vuoi capire i processi delle cose e diventa tutto faticoso».

«Ero timidissima ma si era diffusa la voce che cantassi e suonassi durante l'autogestione. Sono arrivata in sala prove da Francesco, portata da suo fratello, e mi trovo davanti questi universitari stranissimi. Cercavano una voce femminile. Non sapevo cosa sarebbe successo dopo»

Ma com’è che ogni disco è diventato di culto tra gli amanti della musica indie e non solo?

«Siamo a 360 gradi, pronti a tutto e a tutti. Io per esempio mi commuovo ascoltando musica classica, solo piano. Ma poi ho bisogno del casino e dell’amplificazione. Ci piaceva Morricone [l’incipit di Fantasma richiama il testo scritto da Morricone per L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento, nda]. Per questo siamo arrivati a molti. E poi non c’è mai stata la reticenza».

Non avete mai avuto paura che quello che cantavate potesse essere considerato un po’ inclemente?

«Francesco scrive i testi. Non è nelle sue corde, e nemmeno nelle nostre, rassicurare. La musica non deve rassicurare, deve essere vicina a quello che senti, non deve avere paura di usare parole che stonano. Bisogna disturbare. C’è troppa musica compiacente in giro, oggi sento poco il bisogno di distruggere gli argini, demolire le convinzioni. E invece bisogna essere sé stessi per lavorare sulla propria identità. In questo la provincia ci ha aiutato, soprattutto a me e a Francesco».

In che modo?

«Immaginaci. Eravamo due tipi belli strani [ride, nda]. Due ragazzi di due paesini vicini che a un certo punto si ritrovano nella stessa scuola e dopo 25 anni hanno ancora qualcosa da dire e la voglia di farlo insieme».

È che in provincia gli stimoli te li devi trovare, nessuno lo farà per te. Estetica anestetica, come dite ne “I provinciali”.

«Ai nostri tempi non c’era niente, e forse adesso è ancora peggio. Sono tornata nel mio paese giorni fa e c’era ancora meno di prima ma in un modo avvilente. Mi ricordo, non c’era nemmeno un negozio di dischi quando avevo 18 anni, ma prendevi la macchina e andavi a Siena. C’era l’eccitazione».

Qual è il ruolo dell’artista in questi anni di contraddizioni?

«La lotta e l’amore. Bisogna essere investigatori sinceri».

L’occhio precede la penna, e non permette alla sua penna di mentire.

«Noi facciamo delle pause anche belle lunghe perché a un certo punto c’è bisogno che nel tuo lavoro ci entri la vita. Solo così puoi capirla e interpretarla in modo credibile».

Per questo ogni disco, dall’elettronico La moda del lento ai due volumi di L’amore e la violenza, è un piccolo mondo nuovo e diverso?

«Prendi Elvis. Oggi si parla di ritorno ma in realtà non ci siamo mai lasciati, anche quando facciamo le nostre parentesi soliste. È necessario essere liberi di esplorare noi stessi da soli, uscire dalla zona di confort. Io sono stata fortunata a incontrare gente che dava le parole ai miei sentimenti».

Cos’hai capito con Marie prima, l’esordio solista, e Psychodonna poi?

«Che dovevo sentirmi libera nei miei desideri. Più scavi dentro di te più sei speciale, più sei unico, più sei interessante. Mi sono sempre sentita diversa, pensavo di dover performare come gli altri. Io prima cantavo malissimo ai live».

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Foto, Alessandro Treves. Styling, Michela D’Angelo. Rachele Bastreghi indossa Alessandro Vasini hat, t-shirt Uniqlo, blazer Blaze Milano, denim shaft e boots Ami Paris. Claudio Brasini indossa total look Massimo Alba. Francesco Bianconi indossa T-shirt e bomber vintage, denim Ami Paris

Non ci crede nessuno.

«Madonna mia. Non controllavo l’emozione, facevo dei casini. Quello l’ho imparato piano piano, sono cresciuta senza essere in prima linea, un po’ nascosta. Io sono molto fisica, ho bisogno del contatto. Ecco questi anni mi hanno insegnato la bellezza di occupare gli spazi, anche quelli che avevo ritenuto troppo grandi e vuoti per essere riempiti».

Qual è stato il disco del cambiamento? Immagino abbiate percezioni diverse.

«Amen è stato il disco in cui ho iniziato a scrivere portando cose complete. Per me è stato la svolta. Da “Charlie fa surf” è cambiato tutto. Mi ricordo, ero a Milano, dormivo a casa di Francesco con suo fratello perché non avevo ancora preso casa, mi sono alzata la notte e ho scritto una roba col suo pianoforte fino alla mattina. Poi è diventata "L'Aeroplano”».

Durante il secondo live di Milano ad aprile Bianconi aveva detto «non cercate su Internet chi sono Charlie e gli altri, sono tutte cazzate». Ma l’ispirazione da qualche parte l’avrete pur presa per creare questa antologia italiana alla Spoon River.

«Da chi eravamo e da quello che sentivamo. Eravamo giovani, facevamo gruppo, eravamo più ragazzi. Ora siamo un po’ cresciuti, c’è chi c’ha la moglie, chi la figlia, tendi a tenere le cose in casa, anche finito un concerto, ora vuoi subito tornare da loro».

E tu invece?

«Io parlo, abbraccio le persone, le ascolto, sono sempre stata così anche se prima ero muta e non parlavo con nessuno. Mantengo il fanclub [ride, nda]. È che ho il terrore dell’indifferenza. C’è gente che mi chiede gli abbracci come fossi la papessa. Poi non so, mi portano i figli, a me i bambini piacciono tantissimo, anche gli anziani. E se c’è bisogno intervengo anche per dare una carezza. Gli altri, Francesco, Claudio, sono un po’ più…»

Riservati?

«Più toscani».

Noti che il pubblico sia cambiato tantissimo in questo album? Forse è dovuto anche al periodo passato, faticoso.

«Penso che Elvis sia la cosa più giusta nel momento giusto. Invece alla gente non piace molto quando facciamo le cose soliste, prima di ascoltare Psychodonna mi dicevano “ma con i Baustelle ci sei sempre vero?”».

Però proprio Psychodonna ha modificato la percezione che il pubblico aveva di te, avendo forse per anni scambiato la tua timidezza per freddezza e distacco.

«In generale essere donna non è facile in questo mondo, in nessun ambito, ma nella musica ancora meno. La donna non può parlare di pedali, tastiere, cose tecniche, deve essere bella, pensano che siamo tutte così come sembriamo in apparenza».

Non ho mai capito che idea abbiate dell’amore. Occupa i vostri dischi, amori fantasma, amori perduti, amori antichi. Ne L’amore e la violenza Vol. 2 del 2018 canti “A proposito di lei” ironizzando sull’intenzione involontaria di recuperare una relazione finita nonostante le possibilità appaiano nulle.

«Di amore parliamo tantissimo, anche in modo volgare a volte».

Cos’è veramente?

«Una tragedia necessaria. Una bomba piena di coriandoli. O un temporale, un cielo che cambia e che ci passa di tutto».

Contraddizioni vitali, logoranti inquietudini e gloriosi ritornelli. Ci vuole più coraggio o più paura per riuscire a creare una canzone che resti?

«Quando condividi una canzone è come se mettessi le tue paure in una scatola. Ma il coraggio in generale ti serve nella vita. Il mondo è una cosa un po’ crudele no? Per me lo è stata quando mi sono esposta, nel momento in cui ti metti a nudo sei disposto a prenderti tutte le botte. Infatti lo dico sempre, l’artista quando ha qualcosa da dire è coraggioso a prescindere. Prendi Patty Smith, all’inizio della sua carriera quando faceva i reading sputava per terra per la foga che aveva nel buttare fuori le sue disgrazie».

«Il ruolo dell'artista è quello della lotta e dell'amore. Dobbiamo essere investigatori sinceri»

Se dovessi sintetizzare con una frase la storia dei Baustelle, sarebbe?

«Qui ci stiamo fino al pomeriggio»

Allora diventiamo un gruppo di analisi.

«Pensavo più a un’immagine. Un telo bianco. Uno spazio aperto e un abbraccio di Klimt. Un cielo pronto ad accogliere fulmini e saette».

A ogni singolo sembra sempre che conosciate i nostri silenzi.

«Noi non siamo mai stati dei gran musicisti. Avevamo un senso, avevamo delle idee. C’era la voglia e c’era l’amore. Ma più di tutto sapevamo quello che non volevamo essere. Non volevamo il successo per forza, ma solo fare la nostra musica senza lanciare messaggi o farci corrompere».

E siete qui, dopo “La canzone del parco”, a quasi 25 anni di distanza.

«Nella vita c'è bisogno di mistero. Noi avevamo le parole giuste per raccontarlo».