Un miliardo di stream in una sola settimana, 300 milioni in un solo giorno battendo il record su Spotify, al primo posto nelle classifiche Fimi album, cd, vinili e musicassette. The tortured poets department, annunciato nella notte dei Grammy, è l’undicesimo album di Taylor Swift, la cantautrice più famosa, ricca e influente del mondo. La donna dei record non si ferma e si prepara ad arrivare a Milano il 13 e 14 luglio per le due date a San Siro subito sold out.

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Sono passati meno di due anni da Midnights e meno di uno da 1989 (Taylor’s Version) e la stella americana torna con la necessità di raccontarsi, di aprire le pagine del suo diario per buttare fuori tutto il male che ancora c’è dentro: «Un'antologia di opere inedite che riflettono eventi, opinioni e sentimenti di un momento fugace e fatalista, sensazionale e doloroso in egual misura. Questo periodo della vita dell'autore è ormai concluso, il capitolo è stato chiuso. Non c'è nulla da vendicare, non ci sono conti da regolare una volta che le ferite si sono rimarginate. E, riflettendoci meglio, un buon numero di esse si sono rivelate autoinflitte. Chi scrive è fermamente convinto che le nostre lacrime diventino sacre sotto forma di inchiostro su una pagina. Una volta che abbiamo raccontato la nostra storia più triste, possiamo liberarcene.», scrive sui social. Canzoni a farle da specchio, e non ci sarebbe nulla di male, se il riflesso esterno non corrispondesse all’immagine che dà di se. Cambia il riflesso di quel che si vede, anche se non il risultato. Nelle 16 tracce, che diventano 31 nella versione The Anthology, Taylor si ritrova incastrata nella versione di sé stessa del passato.

È la donna più ricca, più famosa, più ascoltata, eppure sembra rincorrere la sé degli inizi, la ragazzina che in cameretta riempieva le note di sogni, come se non si riconoscesse nello status oggettivo del suo quotidiano. Numeri alla mano, Taylor è la donna più influente d’America eppure si racconta ancora come la ragazza che cantava i suoi pensieri più intimi, per il bisogno di esprimersi, riconoscendosi in chi le dava ascolto già nel 2006 con il suo primo album.

Piena di sogni e aspirazioni, oggi dovrebbe averli esauditi tutti, eppure tra le righe dei suoi testi si sente ancora quell’idea di precarietà, il bisogno di prendere coscienza del tempo che passa, del bisogno di essere amata. Amata da tutti, idolatrata dai fan, Taylor canta l'amore che manca, elaborando le separazione da Joe Alwyn dopo sei anni di relazione, ma anche quella con Mattew Healy, molto più breve ma comunque dolorosa, lasciando che la scrittura diventi catartica.

La teenager che faceva sognare l’America oggi è una donna di 34 anni che ha saputo approfondire tematiche e suoni con produzioni che hanno portato album come Folklore a lasciar parlare di sé a lungo. Qui si assiste al tentativo di voler fare qualcosa di grande, correndo il rischio di perdere quel senso di autenticità dei testi, alla ricerca di giochi di parole e ironia che sembrano inseguire se stessa, senza aver chiaro chi è davvero. Taylor è potente, è sicura di sé, è dedita al lavoro senza sosta, eppure canta di chi non si sente così, di chi ha ancora qualcosa da ricercare e guadagnare. Vien da chiedersi cosa. Ma d’altronde come potrebbe cantare “sono ricca, sono famosa, sono potente?”. È un cortocircuito che va interpretato come un nuovo tassello della sua narrativa, nel racconto quasi mitologico di sé. Diventa altro, diventa fiaba, diventa la consapevolezza di chi è ancora in cerca della propria identità, soffrendo, ponendosi dubbie domande, con la voglia di restare la ragazza della porta accanto che apre le pagine del suo diario, quando per tutto il mondo, rappresenta tutt’altro. E nel cortocircuito allora vanno cercate le sue cicatrici e capito che, anche quando diventi la donna più influente del mondo, puoi ancora sentirti fragile, parlando di te e delle tue emozioni. E forse è proprio questo che la tiene lì, nell’olimpo delle star da venerare. Irraggiungibile, ma così vicina, nella sua normalità emotiva.