Si dice che moda sia «lo specchio della società», eppure è ancora troppo presto per poter essere completamente d’accordo. Perchè questo accada su larga scala e la gente comune senta di essere compresa dal sistema, è fondamentale che tutte le taglie, le forme e le dinamiche vengano rappresentate alle sfilate senza alcuna esclusione (e distinzione). Mentre la tendenza anni Duemila lancia l’allarme della vita bassa e della pancia necessariamente scolpita, dalla Grande Mela arriva una buona notizia: stando alla classifica redatta da Tagwalk, la diversity in passerella è aumentata del 366%. La stessa cosa non è successa anche in Europa, dove fatta eccezione per Versace, Mugler e le promesse della nuova generazione, case di moda leggendarie come Chanel e Saint Laurent sono rimaste ancorate a una percezione illusoria della fisicità – in percentuale e in proporzione. È davvero possibile affermare, allora, che il fashion industry sta facendo progressi con l’inclusione?
Secondo Conor Kennedy, fondatore dell’agenzia statunitense Muse Model Management, il problema dipende principalmente dalla dinamica produttiva che, per le grandi aziende, è incentrata sulla solita taglia «standard». Contrariamente alle storiche maison, che producono su larga scala e generalmente puntano a ottimizzare spese, risorse e tempistiche, i brand indipendenti sono più propensi al cambiamento: basta pensare al mindset inclusivo dei giovani talenti London based emerso parlando di cut out e body positivity. Impossibile non pensare, in questo senso, agli abiti knit e alle tute nude aderenti dell’ultima collezione di Marco Rambaldi.
A questo punto, è legittimo chiedersi come procede il piano diversity sul fronte dello scouting. Se da un lato i casting director stanno reclutando un numero sempre maggiore di meravigliose giunoniche, inseguendo il sogno e il successo dei nuovi volti plus size che stanno riscrivendo le regole del gioco – da Ashley Graham a Paloma Elsesser e da Tara Lynn a Precious Lee, è evidente che mancano ancora modelli di riferimento curvy per gli spettatori maschili. Pensando ai talent transessuali e no-binary, il primo nome che viene in mente è quello di Sara Sampaio, subito seguito da Hunter Schafer (che ha appena festeggiato il 23esimo compleanno) e da Dominique Jackson, protagonist* delle serie tv Euphoria e Pose. Ps: nel caso ve lo foste perso, hanno fermato il tempo insieme a Lourdes Leon in catsuit da Mugler.
Perché una rappresentazione inclusiva e comprensiva sbarchi dalle passerelle al guardaroba, la fase della vendita è fondamentale. Da Browns a NET-A-PORTER, i buyer dei migliori retail di lusso hanno dichiarato il proprio impegno a favore della causa. Il primo retail, per esempio, si sta assicurando che almeno il 30% dei suoi prodotti copra una gamma di taglie completa, con l’obiettivo che tutti i suoi principali marchi offrano presto la possibilità di ordinare qualsiasi prodotto plus size. Tra i «best of» dei rivenditori intervistati da WWD sul finire del 2021 ci sono Alexander McQueen e Stella McCartney, Erdem e Nanushka, Valentino, Gucci e Balmain. Allo stesso modo, se i grandi brand decidono di presentare le collezioni ingaggiando modelli curvy, è necessario che mantengano la promessa nei propri negozi.
Per cominciare il 2022 nel modo migliore, l’ideale sarebbe smettere di considerare l’inclusione come una tendenza, un’ispirazione o un’eccezione e assimilarla in maniera intuitiva, ovvia, pop. Così facendo, l’intero sistema ne gioverebbe: dai direttori creativi ai retailer, vestire tutti i corpi non lancia solo un grande messaggio carico di significato, ma accresce anche le possibilità ampliare il proprio pubblico – e di aumentare il guadagno. Un esempio perfetto? Guardando Paloma, Emrata, Precious e Dua Lipa sulle passerelle di Versace, ogni singola uscita appare perfetta – senza distinzione, senza neanche accorgercene.