Matteo Garrone non vuole parlare di politica, ma il discorso è sicuramente tangente al tema del nuovo progetto, Io Capitano, uscito in lingua originale in oltre 200 sale il 7 settembre, il giorno dopo la première mondiale alla Mostra del cinema di Venezia.
Il viaggio di due ragazzi, Seydou e Moussa (Seydou Sarr e Moustapha Fall), è al centro di un racconto che oscilla tra la vita e la morte. I due cugini partono dal Senegal con il sogno europeo di una vita migliore. Per raccontarli con autenticità il regista ha trascorso molto tempo tra ricerche e testimonianze, come racconta durante la conferenza stampa.
Da dove nasce l’idea?
«Il progetto è un controcampo rispetto a quello che siamo abituati , i barconi carichi di persone che a un certo punto vengono considerati solo numeri e non più sogni e desideri. Questa parte del viaggio, infatti, l’Occidente non a conosce, non sa del deserto, dei centri di detenzione in Libia e via dicendo».
La migrazione ha tanti volti, perché ha puntato sui giovani?
«Il 70% della popolazione africana è composta da giovani e spesso scappano da una povertà dignitosa per coronare un sogno. Non capiscono la profonda ingiustizia per cui i loro coetanei europei possono viaggiare tranquillamente in Africa mentre a loro è negato e vanno incontro a un viaggio di morte, forse l’unico davvero epico dei giorni nostri».
In che senso?
«Non solo è un viaggio avventuroso, ma un’Odissea moderna, tra euforia e disperazione. Il film però si ferma quando si avvista la terra italiana. E a dirla tutta non so se avrò il coraggio di fare un film su quello che viene dopo».
Come si è avvicinato a una cultura che non è la sua?
«Abbiamo selezionato 3-4 ragazzi che hanno avuto un’esperienza simile di viaggio, con tanto di richiesta di benedizione degli antenati nei cimiteri. Volevamo essere il più fedeli possibili e alla fine più di un road movie abbiamo realizzato un viaggio di formazione».
Ha dei rimandi ai suoi lavori precedenti?
«Sul piano realistico rimanda a Gomorra mentre quello fantastico mi ricorda Pinocchio, l’ultimo film che ho fatto. Anche qui si conoscono i pericoli, ma non fino in fondo».
Non si è richiesto il risvolto politico?
«Non fa parte del mio mestiere, che è quello di parlare di storie, in questo caso di un archetipo che si confronta con un problema complesso che non si risolverà tanto facilmente nei prossimi anni».
Una curiosità: quante location sono realistiche?
«Solo la parte della Medina di Dakar è autentica, il deserto lo abbiamo ricreato in Marocco e Casablanca è diventata la Libia, mentre il mare è quello di Marsala».
Una peculiarità di questo progetto?
«Non ho mai dato una sceneggiatura agli attori. Ogni mattina raccontavo loro un pezzo di storia e quindi, visto che i veri protagonisti non hanno mai lasciato il Senegal, hanno mantenuto negli occhi quella tensione. Almeno fino all’arrivo in Sicilia dove invece si sono rilassati a tal punto in piscina da perdere quell’intensità d’interpretazione precedente. Abbiamo dovuto faticare per trovarla».