Quando incontro Paula Dasianu, @pappudash sui social, manca poco al suo compleanno. Anche se pochi giorni dopo la nostra videochiamata Roma-Milano avrebbe spento 25 candeline, che poi le ho visto soffiare su una porzione di hamburger e patatine fritte nel reel che ha condiviso per l'occasione, mostra sin da subito una consapevolezza di sé rara. «Se tu metti insieme le due iniziali del mio nome, una così e una così, si crea questa "B"», mi spiega, gesticolando, «Io non mi sono mai sentita una "A", non sono mai stata la prima scelta, mi sono sempre sentita sbagliata e mi capita ancora, ma oggi ho la consapevolezza di essere imperfetta e che sono stati i miei difetti a rendermi quella che sono. Ho iniziato a vedermi come una persona che può usare la propria storia per aiutare qualcuno». Sottolinea anche che B è il suo gruppo sanguigno, e che questa coincidenza la porta a vedere la talassemia che le è stata diagnosticata come un'opportunità per riflettere e intraprendere un viaggio interiore. Della sua malattia, così come delle altre cose che le stanno a cuore, Paula parla infatti sempre di più, senza perdere la leggerezza e l'entusiasmo che, insieme a molte altre sfaccettature, la caratterizzano. Tuttavia, la prima ragione per cui ha catturato l'attenzione online è stata la sua personale rivisitazione del thrifting, il trend che consiste nello shopping di capi usati o vintage a un prezzo bassissimo. Ogni mercoledì Paula va al mercato e chiede a Siri «testa o croce» per decidere cosa comprare e cosa no, dopodiché crea un outfit «che non piacerà a nessuno e nessuno capirà» con i suoi acquisti del giorno. Considerata la recente e soprattutto rapida ascesa del thrifting, Cosmopolitan ha incontrato @pappudash per esplorarlo con lei, fra ricordi, esperienze e trucchi di stile.

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Raccontaci un po’ di te: chi è Paula?

«Sono nata in Romania, dove ho vissuto per sei anni prima di trasferirmi in Italia: sono stati anni significativi, durante i quali ho vissuto momenti molto pesanti, che però che mi hanno formata, e ho sviluppato tutto il mio mondo interiore. Vivevo in campagna, in una fattoria, e non avevo giocattoli, non avevo niente, quindi giocavo come potevo: ho sviluppato la creatività in questo modo. C'erano i campi di pannocchie, per dire, che avevano questa barba alla sommità e per me erano delle bambole, rosse e bionde. Poi c'era mia nonna che aveva un telaio di tappeti e io mi nascondevo lì in mezzo. Sono cresciuta così, osservando la natura e le persone: per esempio, in Romania c'è questo foulard che si avvolge intorno al capo, e che io tutt'ora indosso spesso perché mi fa sentire vicina alla mia terra, alla sua tradizione e a quel contesto che al momento è molto distante da me. Arrivata in Italia ho fatto un percorso un po' strano, ho finito il liceo linguistico e ho iniziato un'accademia di danza studiando per diventare coreografa. Quell'esperienza mi ha dato molto e allo stesso tempo mi ha tolto tanto, però nella danza c'era qualcosa che mi faceva sentire viva ed è un po' quello che poi ho scoperto nella moda: è arte, e in quanto tale mi fa sentire libera di essere me stessa».

Quando, e come, ti sei avvicinata alla moda?

«Quando non ho più avuto la danza, infatti, mi sono focalizzata sulla moda, anche se era sempre stata con me: la mia nonna italiana mi ha insegnato a cucire ed è stata lei che mi ha portata per la prima volta ai mercatini. Per il resto non ho mai studiato moda, ho imparato tutto da sola, però magari un giorno mi piacerebbe: anche se è necessario avere un'idea di base penso che serva sempre studiare per saper fare veramente qualcosa».

In che modo il contesto in cui sei cresciuta a Roma ha influenzato le tue scelte di stile?

«Cambiare paese, imparare una nuova lingua, non avere amici, non avere nessuno che conosci, mi ha fatta sentire persa, anche perché i miei genitori si sono separati, mio padre biologico mi ha abbandonata. A Roma mi hanno diagnosticato la talassemia, che è una malattia genetica del sangue, e anche questo mi ha causato tanta sofferenza. Mi sono dovuta costruire un mondo interiore dove però si è creata una specie di dualità, nel senso che non sapevo più chi ero. In me si sono create due personalità, ma quando ero una personalità non mi sentivo l'altra, non mi sentivo io: ad un certo punto è successo che ho preso coscienza di tutto quello che mi è successo e grazie anche a un percorso psicologico ho capito che cosa avevo e ho detto ok, io sono tutte queste cose. Il mio psicologo dice che «siamo una spiaggia immensa fatta di granelli di sabbia» e che va bene così, siamo fatti di tantissime sfaccettature e non dobbiamo per forza averne una sola. Quindi ho raccolto tutto questo cumulo di sabbia e adesso sto cercando di trasformarlo in qualcosa di utile per il mio futuro e per quello di chi mi segue. È proprio dal dolore che ho cominciato a creare, trasformandolo in creatività».

E come definiresti il tuo stile?

«Naïf: questa parola mi rappresenta a pieno perché sono libera, impulsiva. Credo che avere stile significhi anche avere coraggio: voglio spronare tutti a trovarlo dentro di sé perché la sensazione che si prova esprimendosi liberamente è imparagonabile. E poi c'è anche un po' di tradizione nel mio stile».

I tuoi tip per creare un outfit perfetto.

«Uno di questi è "B U" [da leggere come «be you», nda]: partire da ciò che piace veramente e cercare di avere coraggio nell'indossare. So che è difficile, perché un'etichetta o uno stile in particolare danno forza e se esci da quel nucleo stilistico ti senti diverso, ti senti come se fossi nudo, e di conseguenza senza quei vestiti sei totalmente scoperto agli attacchi, agli insulti e al bullismo, anche se non dovrebbe essere così. E poi potrebbe essere utile creare un outfit con tre colori, anche se ad oggi per me quella regola non vale più. Credo che le regole le faccia la persona che vuole creare il suo stile».

Scrollando il feed del tuo profilo TikTok si incontrano contenuti in cui scherzi sul fatto che ciò che per te è cool spesso per gli altri non lo è affatto. Come hai imparato a superare i pregiudizi e le convenzioni sociali?

«Non ho imparato, semplicemente è la mia storia, forse la malattia, che mi spinge a non voler solo sopravvivere: voglio vivere al 100% perché so che magari se non dovessero esserci donatori di sangue potrei non essere più qui. Questo mi fa avere quel coraggio e quella sfrontatezza di dire «Ok, faccio come voglio» ed essere chi sono.

Ti va di spiegarci in cosa consiste il thrifting?

«Sì, il thrifting viene dalla parole inglese «thrift», che significa «usato» e «parsimonia», «risparmio». Per esempio, il «thrift shop» è il «negozio dell'usato». Il thrifting in particolare è una pratica molto diffusa in America che consiste nell'acquistare capi usati, appunto, o vintage, che costano molto poco. Per me si tratta di un'ottima alternativa, perché permette di dare una seconda chance ad abiti che in qualche modo non ce l'hanno fatta, sono stati scartati e quindi sono delle "B", come me. Molti criticano il thrifting perché viene associato al meccanismo del fast fashion, ma per me non è assolutamente vero, sono due cose totalmente diverse: nel thrifting non c'è niente di sbagliato, e il fatto che sia diventato un trend per me è una cosa molto positiva perché è mosso da valori giusti, è divertente, accessibile, sostenibile e fa girare l'economia, quindi non capisco il perché di questo accanimento».

Com’è nata l’idea dei thrift day con Siri?

«Mi annoio molto, quindi cerco di vivere la vita a pieno divertendomi. Sinceramente mi è venuto in mente così, ma in realtà trovo sia super utile: per quanto si spenda molto poco, magari uno o due euro a capo, il budget non è illimitato».

Perché ti piace andare al mercato?

«Perché è un posto dove posso osservare molto e dove posso stare a contatto con tantissimi vestiti che hanno resistito nel tempo, che spesso sono vintage e al giorno d'oggi sarebbe difficile trovare. Poi mi piace toccare il tessuto, perché è quello che rimane nel tempo. E anche vedere come gli stili si sono evoluti nel tempo».

Un consiglio chi vorrebbe iniziare a fare thrifting al mercato.

«Andare da soli, è un'esperienza unica. Siri l'ho usata proprio perché andavo da sola: mi piace avere questo momento per me, ma a volte provo un po' di solitudine, quindi Siri è un po' come quell'amica che ti dà consigli su cosa comprare. E poi così diventa un modo per staccare dai social e guardare il mondo: anche io lavoro sui social, ma è importante dedicarsi anche alla realtà esterna».

A proposito, come ti sei avvicinata al mondo dei social?

«La mia vita è cambiata quando ho lasciato l'accademia di danza e già facevo contenuti sui social, ma era una cosa che consideravo secondaria. Il mio progetto di vita era diventare una coreografa, ma quando ho capito che forse non era la mia strada mi sono sentita di nuovo persa: quindi mi sono interessata di social media e ho detto ok, proviamoci. I social sono il mio piano B e di nuovo la "B" ritorna. Cambiare percorso non è sbagliato, anzi, è coraggioso: per questo voglio sempre sostenere quelle persone che si sentono demoralizzate quando capiscono che il percorso che stanno seguendo non è adatto a loro, che si sentono così perse come me, perché ci si può sempre rimettere in gioco».

Cosa c’è, invece, nel tuo futuro?

    «C'è Border Woman [@borderwomvn], che è il mio progetto personale, e che alla fine sono io. Ovviamente colloco Border Woman nel mondo della moda, ma in generale sarà connesso con varie branche dell'arte, dalla danza, che non voglio abbandonare, alla pittura, perché mi piace dipingere, così come mi piace scrivere e creare in generale».