Stanno facendo discutere le parole dell'attrice Jodie Foster che, intervistata dal The Guardian, ha analizzato l'etica del lavoro in evoluzione della Gen Z definendola «irritante, svogliata, noiosa», soprattutto quando si parla di vita professionale.

«Sono davvero frustranti, soprattutto quando dicono: 'Oggi non me la sento, arriverò in ufficio alle 10.30. Oppure quando nelle email, quando correggo loro la grammatica, mi rispondono: 'Perché dovrei farlo, non è una cosa limitante?». L'attrice ha poi affidato al quotidiano britannico un consiglio per questi nuovi lavoratori descritti come poco desiderosi di imparare e di crescere umanamente e professionalmente: «Devono imparare a rilassarsi, a non pensare così tanto, a costruirsi qualcosa da soli», ha concluso il premio Oscar. Che, nella sua disamina sul mondo del lavoro odierno, ha dimenticato di guardare al quadro completo, più che alle casistiche che la circondano. Ovvero al fatto che siamo nel pieno di una rivoluzione lavorativa - con questa grande inchiesta sul lavoro anche Cosmopolitan sta cercando di capire gli scenari attuali - che non ha precedenti, dunque neanche letteratura a cui riferirsi per capirne i contorni, un work in progress che sta investendo la società in tutte le sue sfaccettature, dalle relazioni alla vita professionale.

Ma questa reputazione che pare inseguire la GenZ è davvero meritata, oppure è solo frutto di un'incomprensione intergenerazionale? Insomma, sono i Millennials e i Boomers a non capire questo atteggiamento nei confronti non solo del lavoro ma anche della vita - la loro etica, d'altronde, era ed è tutt'ora basata su valori completamente opposti - oppure i giovani al lavoro stanno effettivamente cambiando le carte in tavola e non sempre in meglio?

Partiamo da ciò che sta cambiando e come lo sta facendo, oltre ogni pregiudizio

Dopo la pandemia abbiamo analizzato in lungo e in largo la nuova attitudine delle nuove generazioni lodando la loro massima attenzione al benessere mentale e la volontà di investire il proprio tempo in attività di valore, anziché in progetti molto remunerativi ma poco soddisfacenti. Abbiamo invidiato la loro capacità di saper scegliere come essere felici, anche a costo di sacrificare ciò che sembrava un pilastro per l'equilibrio individuale - lo stipendio in primis - di abbandonare un posto di lavoro poco aderente al proprio set di valori (ad esempio un'azienda che non ha a cuore la sostenibilità), di non cercare più il posto fisso facendo del job hopping e del lavoro fluido una risorsa.

Il mindset è cambiato, anzi sta cambiando ancora, e non è più possibile cambiare il flusso di questa evoluzione. La consapevolezza che le nuove generazioni hanno acquisito dopo il covid non può tornare ai livelli pre-pandemia: di questo bisogna farsene una ragione, i ragazzi oggi sono frutto di quel periodo, su quella rivoluzione hanno modellato la propria esistenza, ispirando anche quella dei loro genitori.

Certo, è vero che, a livello culturale, le analisi sul modo in cui la GenZ e la Gen Alpha (i ragazzi nati dopo il 2012) imparano cose nuove ci dicono che la scuola di oggi non è più sufficiente a garantire risposte alle curiosità e domande del nostro tempo. Da qui il disinteresse per tutto ciò che è sempre stato basilare - la grammatica, la matematica, la filosofia - in un piano didattico formativo e la conseguente indifferenza per tutto ciò che punta sulla forma e non sulla sostanza. Non è una giustificazione al calo culturale generale che sembra aver investito gli studenti delle scuole italiane o internazionali, ma un dato di fatto: secondo una ricerca dell'Ansa i ragazzi vorrebbero sfruttare a scuola le competenze digitali che appartengono loro da quando sono nati, investendo più tempo nello studio delle lingue e nell'educazione all'affettività. Ma mancano le infrastrutture e pure le risorse adeguate per rivoluzionare così tanto il sistema scolastico, dunque si ritorna al punto di partenza: i ragazzi oggi studiano meno, studiano male e sono costretti ad approfondire temi che non sono per loro rilevanti. Da qui il grande equivoco culturale del nostro tempo: alla Gen Z non importa nulla di conoscere il mondo, se questo non è fatto come dicono loro.

E se invece la chiave fosse proprio in questo snodo, ovvero se il mondo visto con gli occhi delle nuove generazioni non fosse poi così male? Oltre le polemiche e le facili incomprensioni, basterebbe ampliare l'analisi del contesto per rendersi conto che l'etica del lavoro pre-pandemia, oggi, non è più sostenibile. E non dovrebbe più esserlo per nessuno, non solo per i ragazzi che si affacciano per la prima volta nel mondo professionale. Dopo aver invocato questa rivoluzione culturale per decenni, oggi non possiamo proprio rigettarla al grido di «si stava meglio prima».