«Se cambia idea noi siamo qua», questo è l'appello del personale medico dell'ospedale di Aprilia dove il 26 gennaio - come tutta Italia ormai sa - un bambino di sei mesi è stato lasciato in sala d'attesa perché venisse affidato a qualcuno che potesse prendersene cura. L'appello è rivolto alla donna che lo ha partorito, ma arriva dopo che sono stati resi noti alla stampa particolari legati al bambino, alle sue condizioni igieniche (definite «discutibili») e dopo che addirittura il video delle telecamere di sicurezza che mostra il gesto della donna è stato mandato in onda sulla televisione pubblica e ripreso da giornali e social media. Ne è nato un acceso dibattito, non solo perché ogni volta che si parla di neonati coinvolti in situazioni del genere scatta un certo pietismo (ricordate il caso del bambino lasciato nella culla termica della clinica Mangiagalli di Milano?) ma anche per via delle posizioni del governo su aborto e maternità. Quello che, però, non tutti sanno è che in Italia esiste una legge che tutela la libertà delle donne di non crescere il bambino che hanno partorito affidandolo alla collettività.

Il parto in anonimato e le "culle per la vita"

C'è una legge (il DPR 396/2000) che sancisce, al secondo comma dell'articolo 30, il diritto di partorire in anonimato. Si dice esplicitamente, infatti, che la dichiarazione di nascita di ogni bambino verrà fatta «rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata» e in tal caso è prevista la dicitura «nato da donna che non consente di essere nominata». È possibile, quindi, partorire e scegliere di non avere legami con il bambino in questione, del resto, come sottolinea Michela Murgia nel suo libro postumo Dare la Vita, gravidanza e maternità sono due cose distinte. Chi partorisce, inoltre, può richiedere (in base all'articolo 11 della legge 184/1983 sul diritto all'informazione alle donne prima, durante e dopo il parto) un periodo di riflessione dopo il parto non superiore a due mesi in cui decidere se tenere o meno il bambino, sospendendo la procedura di adottabilità. «In ospedale, al momento del parto», si legge sul sito del Ministero della Salute, «serve garantire la massima riservatezza, senza giudizi colpevolizzanti, ma con interventi adeguati ed efficaci, per assicurare - anche dopo la dimissione - che il parto resti in anonimato». Ormai, comunque, sono sempre meno le donne che scelgono di usufruire di questa possibilità: 642 casi nel 2007 e solo 173 casi nel 2021.

Un'altra opzione per le donne che non vogliono diventare mamme dopo il parto è quella di affidare il piccolo alle cosiddette "culle per la vita", delle incubatrici riscaldate pensate apposta per questi casi. Può capitare, infatti, che la decisione di non voler crescere il bambino avvenga dopo il parto e per questo, se il neonato viene lasciato in un luogo sicuro, lontano da pericoli, dove può essere subito ritrovato e non è a rischio la sua vita, è escluso il reato di abbandono di minore e la donna non può essere perseguita. Il punto è che, ad Aprilia, non ci sono culle termiche dove lasciare i bambini per darli in adozione.

La storia delle "culle per la vita"

L'idea alla base delle culle per la vita risale ai tempi delle “ruote degli esposti” comparse per la prima volta in Francia nel dodicesimo secolo. In Italia, la prima venne installata all’ospedale Santo Spirito in Sassia a Roma per volontà di papa Innocenzo III nel 1198, ma nella seconda metà dell'800 se ne contavano già 1200 in tutto il Paese. Si trattava banalmente di marchingegni a ruota in legno collocati tra due aperture, una che dava sull'esterno e una all'interno dell'edificio scelto per accogliere i bambini. Il neonato veniva collocato in un vano della ruota che poi veniva fatta girare attivando un campanello, in questo modo chi si trovava all'interno dell'edificio riceveva il bambino "esposto" senza poter vedere chi l'aveva lasciato. Già allora, dunque, la privacy era un elemento essenziale. In Italia le ruote sono state abolite nel 1923 per volontà di Mussolini che non accettava la possibilità per una donna di rifiutare la maternità e rimanere anonima. Eppure gli abbandoni di minori non sono mai finiti con il rischio (tuttora esistente) che i neonati vengano lasciati in luoghi poco sicuri. Per questo, alla fine degli Anni '90, dopo alcuni casi di minori lasciati per strada o nei cassonetti, i movimenti pro vita hanno ricominciato a installare le cosiddette "culle per la vita", ora decisamente più moderne.

Come funzionano le "culle per la vita"

Ce ne sono circa 56 in tutta Italia e vengono solitamente installate da movimenti pro vita o associazioni benefiche. Si tratta di incubatrici riscaldate collocate in luoghi poco esposti (sul sito web culleperlavita.it è possibile localizzarle) e in grado di tutelare al meglio l'incolumità del bambino e la privacy della donna. Basterà premere il pulsante per aprire lo sportello e collocare il bambino nella culla riscaldata. A quel punto lo sportello si chiuderà e in automatico verrà allertato il personale sanitario che preleverà il piccolo per verificare il suo stato di salute, dopo dieci giorni sarà dichiarato adottabile dal Tribunale per i minorenni della Regione e inizierà la procedura per l’adozione.

Oltre la legge

La legge italiana, dunque, almeno formalmente, tutela la privacy delle donne e la loro libertà di diventare madri o meno. Come nel caso dell'Ivg, però, spesso le leggi non vengono applicate e, se una donna decide di lasciare un bambino in adozione, ci si trova di fronte a dati sensibili resi pubblici, appelli e video diffusi rischiando l'identificazione dei soggetti interessati. Ma allora, se l'aborto è un percorso a ostacoli e la scelta di dare in adozione dopo il parto conduce alla gogna pubblica, che opzioni rimangono? Tutela dei bambini e libertà di scelta di chi li ha partoriti dovrebbero andare di pari passo eliminando il giudizio verso chi decide di affidare un neonato a chi voglia e possa fargli da genitore. Questo, tra le altre cose, dovrebbe valere a prescindere dalle ragioni dietro al gesto, spesso sfaccettate e strettamente personali. Altrimenti risulta chiaro che l'obiettivo non sia nemmeno più tutelare la vita, quanto piuttosto obbligare le donne a diventare madri a tutti i costi.