«Quando qualcosa non vi torna datemi torto», scrive Michela Murgia nella prefazione del suo libro postumo, «dibattetene, coltivate il dubbio per sognare orizzonti anche più ambiziosi di quelli che riesco a immaginare io». Dare la vita, composto da un insieme di testi scritti tra il 2016 e il 2023, alcuni dettati dall'autrice nei suoi ultimi giorni di vita, riparte dagli ultimi post su Instagram di Murgia, quelli dove parlava per la prima volta della sua famiglia queer. Da un lato ritorna dunque la «queerness» a cui la scrittrice dedica diverse pagine e che, per lei, è un concetto che implica «una esplicita progettualità antinormativa». Dall'altro ci sono i legami che la nostra società ama etichettare e c'è la maternità (troppo spesso vista come sinonimo di gravidanza) e che oggi e da sempre è terreno di scontro politico. Così, anche la riflessione, quanto mai urgente, sulla gestazione per altri Murgia la scrive «da madre queer», da una prospettiva che indaga i rischi e i rapporti di potere che sorgono dalla categoria del legame "naturale".

Murgia ci lascia dunque un testo di cui avevamo profondamente bisogno che, però, è anche punto di partenza, cassetta degli attrezzi da cui partire, per continuare da dove lei ci ha lasciate. Per questo ne abbiamo parlato con Giulia Zollino, educatrice, scrittrice, content creator e consulente sessuale, che nel suo lavoro tratta temi che si ritrovano in Dare la vita: dalla gerarchizzazione degli affetti, ai limiti del concetto di fedeltà applicato alla monogamia, dalla narrazione della gelosia, alla demonizzazione della prostituzione. Con lei ci siamo soffermate su alcune frasi del libro.

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“Direi che la queerness è la scelta di abitare sulla soglia delle identità (intesa come maschera di rivelazione di sé), accettando di esprimere di volta in volta quella che si desidera e che promette di condurre alla più autentica felicità relazionale.”

In contrasto con questa idea di queerness proposta da Murgia c'è la nostra società dove le etichette a livello relazionale sono moltissime: amico, partner, marito, mamma, papà. Perché ci aggrappiamo così tanto a queste definizioni?

«Ci illudiamo che questi confini ci proteggano e quindi utilizziamo degli schemi piuttosto rigidi. Se io ti incasello nell'etichetta amicizia so esattamente come mi devo comportare, so che ad esempio non facciamo sesso, so che ci vediamo non troppo spesso, che probabilmente mi vedrò di più con la mia persona partner, eccetera. Ci sono una serie di regole, di accordi impliciti e quindi mi sento più al sicuro a mantenerti in quella categoria lì. Proprio oggi sto leggendo le risposte che mi hanno dato alcune persone su Instagram perché ho tirato fuori il tema “sesso e amicizia” e tante menzionano questa difficoltà per cui è impensabile superare il confine e sfociare in qualcosa a cui non sappiamo dare un nome».

“Agli occhi dello Stato, non ero io la madre del figlio di cui stavo prendendomi cura.“

Murgia porta esempi anche molto personali del suo vivere la maternità queer - che nulla ha a che vedere con i legami di sangue - a fronte di una società che tenta di riportare questi legami in compartimenti più rassicuranti. Ci sono legami per cui è considerato “legittimo” tenere certi comportamenti e altri per cui non lo è, questo che conseguenze ha?

«Pensare le relazioni come scatoline dove inserire le persone alla fine ci fa sentire molto, molto più insoddisfatti e soli. Se provassimo a comportarci come desideriamo con le persone, a partire proprio da un bisogno autentico, fregandocene di come dovremmo agire in base alle etichette date, allora forse potremmo avere relazioni più autentiche in cui possiamo davvero esprimere la nostra soggettività, i nostri bisogni, i nostri desideri più profondi e potremmo sentirci davvero connessi».


“La fedeltà è l'altro nome del possesso, l'umore dove fermenta la tossina della gelosia, che inquina i sentimenti e struttura i rapporti di potere più dolorosi e squilibrati”.

Abbiamo bisogno di ripensare concetti come, appunto, fedeltà e gelosia, tradizionalmente romanticizzati?

«Abbiamo bisogno di ripensarli e abbiamo bisogno di costruire una nuova narrazione sulla gelosia. Non sono, però, del tutto d’accordo con questo passaggio di Michela perché, da un lato, è vero la gelosia viene romanticizzata, però la gelosia è un'emozione, non è qualcosa di negativo o di positivo in sé, è semplicemente un'emozione che proviamo, che ci attraversa. Dovremmo ripensarla in quest'ottica, trattarla come un qualcosa di neutro e anche utile per noi, perché ci dice quali sono le nostre paure profonde, i nostri bisogni più umani. Dietro la gelosia spesso c'è una paura di essere abbandonati, di essere sostituiti, di non essere speciali, cose super pesanti e importanti. Dobbiamo ripensarle senza un giudizio negativo e vivere la gelosia come un'emozione che ci informa e che, se gestita male, se non ascoltata, se non lavorata può portare a dei comportamenti aggressivi e dei comportamenti violenti. Ma non è la gelosia in sé il problema, è quello che ci facciamo con questa emozione».



“Mi pare evidente che il problema etico della remunerazione della gravidanza surrogata sia identico per natura a quello di qualunque prestazione estrema di vita che si fa in cambio di denaro: è un problema di classe, di rapporti di potere economico e sociale, di scambio impari”.

Perché spesso si ritengono ​​accettabili impieghi degradanti (Murgia nel libro fa l’esempio delle donne che lasciano il proprio Paese e i propri figli per venire a fare le badanti in Italia rinunciando a vederli crescere), e invece ci si scandalizza quando si parla di prostituzione o retribuzione per gpa?

«Eh, bella domanda. Forse perché si parla di qualcosa che è stato ritenuto sacro, intoccabile, prezioso e da salvaguardare, come appunto il corpo delle donne. E perché si parla di sistemi di potere: penso alla parola “puttana” che è qualcosa che sconfina il sesso e viene indirizzata a qualsiasi donna metta un po’ in discussione un sistema di potere, qualsiasi donna che si ribelli allo stato delle cose».

“Sposa di qualcuno, madre di chiunque, io non sapevo cosa fosse la vocazione a essere me”.

Questa è una delle mie frasi preferite del libro: le etichette legate alla famiglia tradizionale continuano a limitarci nella scoperta della nostra “vocazione a essere noi”?

«Certo, ci limitano rispetto all'autenticità. È chiaro che sono una sorta di bussola, ci aiutano a vivere, a stare nel mondo ma. Ma spesso l'altra faccia della medaglia è che ci danno una direzione che non è detto che sia la nostra personale direzione, quella che vogliamo prendere e dare al nostro mondo. Penso anche a tutto il tema della monogamia: Michela nel libro non parla di poliamore e di non-monogamia, però per me il suo libro è molto poliamoroso. E appunto anche la monogamia, con regole e schemi prefissati, non ti fa indagare sulle cose. Se entriamo in un territorio sconosciuto in cui le regole tendenzialmente le scrivono le persone che creano quella relazione, allora lì possiamo inventarci qualcosa che non esiste, non ci servono dei ruoli già scritti perché ce li stiamo creando noi e sono ruoli che non sono immutabili, ma in costante movimento».