A Carolina Sala piace il Medioevo. I mosaici, in particolare. Dice che è una passione che ha sempre avuto e che ha sempre amato coltivare. Ha deciso di studiare Storia dell’Arte dopo aver cominciato a recitare. Parla di equilibrio quando cita il mestiere dell’attrice. E di emozioni, condivisioni, passione. In Noi anni luce, al cinema con Notorious Pictures, interpreta Elsa, una ragazza che scopre di avere la leucemia mentre si sta allenando (film di Tiziano Russo con Rocco Fasano). Da quel momento è costretta a fare i conti con una nuova realtà. E, soprattutto, con una nuova sé stessa. «Quando ho fatto il provino, non sapevo quasi nulla del progetto», racconta Sala. «Solo mesi dopo, quando me ne ero quasi dimenticata, è arrivata la sceneggiatura e mi hanno chiesto di fare parte di Noi anni luce».

E che cosa ti ha colpito? Perché, alla fine, hai detto di sì?

«Nonostante quella che raccontiamo sia una storia che, apparentemente, può sembrare già vista, abbiamo avuto la possibilità di mostrare e affrontare un periodo importante della vita. Quello che mi ha colpito, al di là dei generi, sono stati i personaggi e la loro evoluzione. La loro umanità».

Esiste un modo per diventare impermeabili a questo tipo di storie, per tutelare il proprio equilibrio?

«Come attore, non puoi essere impermeabile. Devi riuscire ad avere una grande empatia. Ma nel senso letterale: devi condividere un’emozione, e devi essere quasi una spugna. L’impermeabilità è un aspetto che bisogna evitare. Questa, come altre storie, è molto pesante. Però è così anche la vita: c’è qualcosa di quello che ognuno di noi vive e affronta ogni giorno. Riuscire a essere più vicini a un realismo narrativo, mantenendo comunque un approccio delicato e non morboso, è fondamentale. A un certo punto, però, ti devi salvare».

E come ci si salva?

«Non è facile. Non lo è mai».

Come si fa quando si lavora a una storia come questa?

«Non so dirtelo con precisione. Sicuramente nei momenti più drammatici e intensi, finisci per perderti. Ma essere su un set, circondato da altre persone, ti aiuta».

In che modo?

«Quello che ti sostiene è sapere che ci sono altri attori accanto a te, pronti a condividere quel singolo istante».

«Ho perso molte esperienze della mia età», hai detto.

«All’inizio ho sentito che non avrei potuto fare altrimenti. Hai 18, 19 anni e stai lavorando. I tuoi amici sono all’università, e rispetto a te hanno un altro tipo di responsabilità. Devi sforzarti di mantenere i contatti con i tuoi coetanei e con gli amici di prima».

Ci sono un prima e un dopo?

«Ci sono sempre. Ecco, quello secondo me aiuta tanto. E anche non essermi trasferita subito a Roma mi ha permesso di preservare determinate cose della mia età o comunque mi ha permesso di lasciarle nell’esatto momento in cui volevo farlo. È innegabile la differenza che si finisce per percepire. Vivendo certe esperienze, cresci. E capisci che gli amici sono veri amici perché, nonostante tutto, restano. Non vanno via».

Decidere di recitare è un modo per far continuare la propria infanzia, la propria adolescenza?

«Il bello della recitazione è che puoi essere chiunque. Io sono tornata a essere diciassettenne e a vivere uno dei momenti che vengono considerati più liberi e spontanei».

Tu, invece, come lo consideri?

«Anche per me avere 17 anni coincide con la libertà e con la spontaneità. A quell’età non avevo ancora iniziato a lavorare, ed è stata una fase molto divertente e spensierata. E poi, sai, quel periodo tra il quarto e il quinto anno di liceo, quando non devi ancora pensare a niente, a che cosa farai dopo, a quale università iscriverti, l’ho vissuto bene. Felicemente».

Che cosa significa essere un’attrice?

«Poter essere chiunque. Interpretare qualunque tipo di personaggio. Andare avanti e indietro nel tempo. Cambiare. Diventare persone che non incontreresti mai. Ed è un grande esercizio, se vuoi».

Per cosa?

«Recitare, secondo me, ti rende una persona migliore. Perché ti apre al mondo e agli altri. Pensa al teatro e all’esperienza che regala. Quando reciti, puoi metterti realmente nei panni di qualcuno diverso da te».

L’empatia, a un certo punto, può avere degli effetti collaterali?

«Se vedo la scena di un film in cui un personaggio è in imbarazzo, anche io mi sento in imbarazzo. Ma è lo stesso teatro a dirti come uscire da questa dinamica. Non mi piace il metodo: non mi piace l’idea di dover completamente soffrire in questa empatia. Per me, deve rimanere tutto un gioco; deve essere un esperimento continuo. Quando reciti, devi capire. Non devi ferirti».

Altrimenti che succede?

«Altrimenti non serve più a niente, e si perde di vista qualunque prospettiva».

Nonostante il lavoro, hai comunque deciso di iscriverti all’università. Alla facoltà di Storia dell’Arte. Perché?

«La sto finendo, sì. Ho sempre provato a seguire le lezioni. Ma è complicato. È come stare con due piedi in una scarpa. Mi sono iscritta perché volevo fare qualcosa per me».

E perché Storia dell’Arte?

«Mi piace. Semplicemente. È una cosa che ho imparato ad apprezzare fin da piccola, grazie a mia nonna, e che ho riscoperto dopo. Mi piace studiare l’arte in modo scientifico, mi piace raccontarla e analizzarla. Non so che cosa farò dopo la triennale. Forse farò la magistrale o troverò un altro modo per andare avanti».

carolina salapinterest
Claudia Pasanisi

Studiare Storia dell’Arte sembra quasi una ricerca, dove la bellezza non è solo una caratteristica soggettiva, ma coincide con l’equilibrio, l’armonia e la passione.

«Può essere così, certo. Ma non solo. Perché c’è chi si occupa della forma, e c’è chi, invece, si concentra sul contenuto. Ci sono alcune opere che ci parlano senza bisogno di avere un contesto preciso. Ma l’arte, alla fine, parla di noi. Di quello che abbiamo scelto di tramandare e raccontare».

Nella recitazione qual è la cosa più importante, la forma o il contenuto?

«La forma è sostanza nella recitazione. Non puoi, e non devi, essere un involucro vuoto. Il cinema è forma perché vedi delle immagini proiettate e senti delle battute. Anche come ti vesti, nel cinema, ha un significato. Ma se ci pensiamo la stessa cosa succede nella vita».

Prima mi parlavi del modo in cui affronti il lavoro: la serietà e la consapevolezza con cui lo fai. Il resto dell’industria si comporta nello stesso modo con i più giovani?

«Penso che ci sia sempre una lotta. Sia dal punto di vista generazionale che dal punto di vista delle idee. Se non ci fosse, probabilmente, sarebbe un problema».

Serve?

«Assolutamente sì. Perché il dibattito è fondamentale. Poi è chiaro che ci sono anche la fame e la voglia di affermarsi, di rivendicare il proprio posto. Crescere significa cambiare, e cambiare a volte significa provare a migliorare. Pensa a quello che è successo con il MeToo. Io ho cominciato a recitare quando questi fenomeni erano già scoppiati, e sono abituata così».

So che vedi Monica Vitti come un riferimento. Perché?

«Perché l’ho sempre trovata bravissima, e mi è sempre piaciuto il modo in cui è riuscita a passare dal dramma alla commedia. Certo, alcune cose le sono capitate. Altre, però, è stata lei a cercarle. Non ha mai voluto raggiungere nessun tipo di divismo: è successo».

Resiste un pregiudizio sotto questo punto di vista? Per poter cambiare registro dalla commedia al dramma?

«Su di me non lo sento fortissimo, ti dico la verità. Sono ancora all’inizio della mia carriera, e non sono ancora stata – diciamo così – incasellata. Ed è quello che voglio, tra l’altro. Vedo che c’è una divisione diversa rispetto ad altri paesi come il Regno Unito».

Tornando all’arte: pittura, scultura o architettura?

«In generale, la pittura. Nello specifico, il mosaico. Sono una grande appassionata di Medioevo».

Qual è il quadro che ti piace di più?

«Uno che mi piace molto, e non so dirti se è il mio preferito, è Allegoria della simulazione di Lorenzo Lippi. Non è particolarmente conosciuto, ma quando l’ho visto per la prima volta, in Francia, mi ha colpito moltissimo».

Che cosa, in particolare?

«Lo sguardo. Ha uno sguardo incredibile».

So che sei andata in Giappone ultimamente. Sei un appassionata di manga e di anime?

«Ho avuto la mia fase con i manga, quando ero più piccola. Mi piacciono i film di Hayao Miyazaki. In generale, però, mi piace la cultura giapponese. Quando sono stata lì, ho visto uno spettacolo di Kabuki. È stato, credimi, meraviglioso».

Come italiani ci prendiamo poco sul serio, secondo te?

«Sì, a volte sì. Tendiamo a sottovalutare quello che abbiamo e a non valorizzarlo. Pensa al nostro patrimonio artistico».

Prima hai citato Miyazaki. Film preferito?

«Il castello errante di Howl».

Tu, oggi, come ti senti? Sei in equilibrio? Hai trovato il centro del tuo mondo?

«L’equilibrio è una cosa che cambia in continuazione, e che devi sapere come ritrovare. Tra i 18 e i 19 anni, con l’arrivo del cinema, sono stata travolta. Ora, però, sono più serena. Questo è un lavoro in bilico».

Per cosa?

«Per i giudizi e per gli impegni. Non sempre si trovano nuovi ruoli, e spesso passa un po’ di tempo tra una parte e l’altra».

Quindi ti stai muovendo in punta di piedi.

«Sospesa, sì. Come su di un filo. Ma contenta».