Varcare la porta della Trattoria Trippa è un po’ come entrare in una piccola parte di mondo dove il tempo ha il potere di fermarsi. Accostare questa effimera, ma fortissima sensazione a Milano e alla sua frenesia richiama un ossimoro che, però, si fa reale e concreto quando lo si vive con i propri occhi e con le proprie sensazioni perché, alla fine, è di questo che si parla. Olfatto, gusto, vista, ma anche udito e tatto vengono prontamente attivati da una magica atmosfera eterna, quasi incantata. Ecco perché le trattorie in città stanno cambiando. Ecco perché si cerca sempre di più una sensazione che richiami la tradizione, piuttosto che locali patinati. Ecco perché Diego Rossi, con il suo accento veronese e la sua meravigliosa schiettezza pungente, ironica e mai banale, ha avuto, insieme al suo socio Pietro Caroli, l’idea giusta andando contro canoni di una ricerca sempre più lontana dalla nostra italianità. Ecco perché, oggi, stiamo vivendo il vero momento della trattoria. Così, poco prima che le campane vicine suonassero i rintocchi del mezzogiorno e con - ancora per poco - un silenzioso appetito, abbiamo raggiunto Diego Rossi. Per scoprire ancora di più la sua passione e tuffarci nei suoi ricordi.

Stupore, inizierei da qui. La tua cucina è ricca di materie locali e questo ti porta a proporre piatti di grande tradizione, come il famosissimo vitello tonnato. Si pensa di conoscere bene i sapori e le sensazioni mangiando quel piatto, invece ci si sorprende. Da dove nasce il tuo desiderio di stupire con piatti che le persone credono di conoscere bene?

«Ho lavorato a lungo tempo nei ristoranti stellati e fine dining e il mio pensiero era sempre lo stesso: alcuni ingredienti non si utilizzavano perché considerati troppo rischiosi, io volevo prenderli in mano e sfidarmi per riportarli in auge così come lo stesso concetto di trattoria. Un tempo le frattaglie si mangiavano, facevano parte della nostra cucina popolare. Così abbiamo aperto un locale, una trattoria con una cucina di recupero e ingredienti poveri. Abbiamo preso in mano frattaglie, tagli meno nobili del bovino, verdure italiane, ingredienti dimenticati. Ad ogni modo, partendo con questo spirito ora siamo arrivati a spendere più di altri perché le materie ricercate costano molto».

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La carta quindi come varia?

«Cambia in base al periodo e all’ingrediente, ma ogni sera cambiano i tre fuori carta. Poi ci sono i piatti della casa che non cambiano mai: la trippa fritta, il vitello tonnato, la battuta di carne, la trippa in umido e il midollo. È tutto uguale a come succedeva in passato: ci sono i piatti della casa che non variano mai e poi una carta che si modifica in base alla natura del periodo».

Trippa riprende a pieno la trattoria italiana, quando si entra nel vostro locale è un po’ come fare un tuffo nel passato. Ti sei ispirato a qualche ricordo della tua infanzia?

«Sicuramente. Ho portato qui tutti i sapori della mia infanzia, ad esempio quelli legati a mio nonno. Nella mente si disegnano diverse scene: il momento in cui andava a caccia, quando si cucinava polenta e osei o il fegato alla veneziana oppure la macellazione del maiale. Ci sono dei momenti che mi continuano a riportare indietro nel tempo e poi ci sono quelle sensazioni che ho provato, ad esempio, quando sono andato a mangiare in qualche località un po’ sperduta e ho respirato un’aria diversa, di altri tempi».

C’è un continuo ritorno al tuo passato, c’è un piatto della tua infanzia che hai voluto ricreare per primo?

«Assolutamente, l’ho fatto e non lo ripropongo sempre. È la polenta risà, si chiama così perché è un piatto realizzato con il riso, il vialone nano, bollito in acqua, con aggiunta di una manciata di farina per legarlo e servito su una panara da polenta, il classico tagliere su cui si tagliava la polenta. Sopra si aggiunge un ragù di salsiccia di maiale con dei pezzi di salsiccia rosticciata. Questo è un piatto che ricorda molto la mia infanzia, è quello emblematico, mi ricorda la mia prozia. Lo cucinava lei quando si macellava il maiale. Lo mangiavamo tutti insieme da mio nonno».

Con Trippa nasce la nuova trattoria. Come sta cambiando questo termine?

«Negli anni ha subito un cambiamento profondo nel suo significato prendendone una connotazione negativa. Trattoria era simbolo di piatti abbondanti a un bassissimo costo. È il risultato degli anni 70/80 perché prima era un luogo dove cucinavano le mamme, le nonne, le zie e dove si spendeva poco, ma si mangiavano ingredienti di grande qualità perché arrivavano dai contadini delle zone limitrofi. Costava poco e si mangiavano piatti buoni. In più la trattoria aveva caratteristiche estetiche precise: erano luoghi popolari arredati con materiali popolari e così, anche noi, abbiamo mantenuto questo pensiero per costruire Trippa».

Nei mesi precedenti all’apertura di Trippa hai girato per molti ristoranti di Milano per vedere e capire cosa offrisse la città, cosa ti ha lasciato quello studio, quella scoperta?

«Sarò molto sincero: passavo davanti a questi luoghi bellissimi e avevo l’idea che a Milano ci fossero un sacco di progetti incredibili. Poi ci andavo a mangiare e ne rimanevo deluso. Erano belli, pensati bene, ma senza identità. Tutta fuffa, come dico io. Sentivo che mancava un livello medio buono. Mancava la trattoria».

Siamo arrivati a un momento in cui forse siamo stanchi dei locali pettinati e di grande sfarzo, ma con poca sostanza; secondo te perché oggi si cerca qualcosa che richiami la tradizione?

«Perché l’abbiamo perduta. Fondamentalmente quasi tutti amano il senso della convivialità perché semplicemente l’hanno vissuta e poi è scomparsa. Ce l’hanno nel dna. La trattoria è nel dna delle persone. La tradizione, il passato che ritorna in modo così fedele è qualcosa che attrae persino i giovani che non hanno mai vissuto questi ambienti. Siamo italiani e questo è il nostro modo di mangiare, poi parliamo comunque di un ambiente che ha il potere di tirarti fuori dalla frenesia di Milano, anche se a me non sembra, ma è quello che mi dicono (ride, nda.). L’ambiente è accogliente, caloroso. C’era un bisogno di tornare a qualcosa di più concreto, sono stati anni di infighettamento, fine dining, ci voleva qualcosa di più concreto che ci portasse con i piedi per terra. Per anni abbiamo perso di vista la cultura italiana».

Possiamo dire che l’esempio più lampante di questa tua ultima dichiarazione siano tutti i sushi, gli all you can eat, che hanno preso piede in Italia.

«Quello è l’esempio di quanto ci siamo allontanati dalle nostre radici e, passami il termine, di quanto ci siamo rincoglioniti. Questi luoghi sono solo l’esasperazione della necessità di esoticità. Il sushi, quello vero, è un'altra cosa. E poi è un modo di mangiare malsano: si mangia tantissimo e all’intestino non fa bene. Più mangiamo e più il nostro corpo è affaticato».

Sei molto attento anche all’alimentazione e nella tua cucina dai molto spazio alle verdure che per molti sono considerate un semplice contorno, perché?

«Per diverse ragioni. Prima di tutto io stesso mangio tantissime verdure e in casa mia si è sempre mangiato così: molta verdura e poca carne. Inoltre per modificare la carta è determinante la verdura perché è stagionale. Mi piace partire proprio da questo ingrediente, mi piace trasformarlo e lavorarlo. Secondo me il futuro deve andare verso questa direzione con più verdure e meno carne in tavola».