Se il 2021 è stato l'anno delle grandi dimissioni e il 2022 quello del quiet quitting, il 2023 già si è configurato come l'anno del conscious quitting e più in particolare del climate quitting, ovvero della tendenza a lasciare un posto di lavoro e un'azienda che non sostiene l'ambiente e non ha a cuore le sorti del Pianeta.

Con l'emergenza climatica ormai diventata impellente (e forse, così dicono gli esperti, senza via di ritorno), questo fenomeno che intreccia la necessità di mettere al primo posto la sostenibilità si sta diffondendo a macchia d'olio in particolare nelle multinazionali, colpevoli di attuare programmi incentrati sull'ambiente solo per una questione di green washing e non di reale interesse o volontà di cambiare le cose.

Secondo un report di Bloomberg che cita dati raccolti dall'International Energy Agency, nel 2022 sempre più persone hanno investito la propria professionalità in aziende dell'energia pulita e rinnovabile. LinkedIn, in base all'indagine Global Green Skills Report, ha invece notato quanto, negli annunci di lavoro, sia cresciuta la richiesta di "green skills", ovvero di competenze legate al settore, tra le altre cose, della sostenibilità, delle energie rinnovabili, dello zero-waste. Segno che, sempre di più, la richiesta e l'offerta in termini di posti di lavoro più focalizzati sull'ambiente siano diventati un binomio inscindibile per le aziende che basano il loro operato sui dettami della green economy e per i dipendenti che sentono il bisogno di fare la differenza non solo a casa propria, ma anche in ufficio.

Il climate quitting è, di fatto, la diretta conseguenza della scarsa attenzione di multinazionali e ambienti di lavoro che non mettono al primo posto l'esigenza di impattare sempre meno (se non affatto) sull'ambiente e sulla salute del pianeta. Sempre secondo il report di Bloomberg, il numero di persone che sta lasciando un posto di lavoro sicuro o che sta scegliendo di ridurre il proprio stipendio pur di lavorare in aziende sostenibili sta aumentando sempre di più. Già nel 2021, un'inchiesta di Yale University su 2 mila studenti di 29 business school sparse intorno al globo, puntualizzava che il 51% degli intervistati avrebbe volentieri ceduto parte del proprio salario pur di lavorare in una società davvero concentrata sulla sostenibilità e sull'ambiente.

Le aziende incriminate sono quelle che non rispettano i criteri ESG (Ambiente, società e Governance), acronimo che racchiude un insieme di valori che pongono al centro la trasparenza, la sostenibilità e l'inclusione in diversi settori, dalla finanza alla politica. A differenza del quiet quitting, che invece rappresentava una sorta di rivoluzione silenziosa contro la società della performance e il carrierismo a tutti i costi, il climate quitting punta ad allenare la consapevolezza rispetto alla propria posizione nel mondo e all'impatto ambientale che ciascuno di noi lascia al passaggio su questa Terra.

I più sensibili sul tema, dicono sempre le prime stime su questo fenomeno attualmente in essere, sono i ragazzi più giovani: la Gen Z è nata e cresciuta nel pieno dell'emergenza climatica ed è quindi pienamente consapevole, più di altre generazioni, della portata della situazione in cui ci troviamo oggi. I dati però confermano che questa esigenza è sentita anche dai Millennials, dunque da chi si trova nella fascia 30-40 anni: si tratta di persone che, pur non essendo state educate alla sostenibilità, hanno imparato, nell'ultimo decennio, a informarsi e ad approfondire certi temi, cambiando punto di vista e modificando le proprie abitudini quotidiane per non diventare un peso ulteriore per la già affaticata salute ambientale.