Una ragazza adolescente su quattro è autolesionista. Questa cifra impressionante non è fantascienza: è l’esito scioccante di una ricerca condotta su oltre 65.000 studenti delle scuole superiori da un team di sociologi dell’Università di Portland, pubblicata sull’American Journal of Public Health. Tra gli intervistati, una Millennial su quattro ha dichiarato di essersi intenzionalmente tagliata o bruciata nell’anno precedente, rispetto a un ragazzo su dieci.

Se pensi che riguardi solo le adolescenti americane, ci sono notizie cupe: gli under 20 che si rivolgono a Charlie Telefono Amico, un numero verde gratuito che dà supporto telefonico a chi si trova in difficoltà, sono soprattutto vittime di cyberbullismo e persone che praticano l’autolesionismo.

L’autolesionismo è un tema sociale caldo, al punto che molte università se ne stanno occupando. La Cornell University ha inaugurato un programma per capire questo fenomeno, ma soprattutto per riconoscerlo, trattarlo e prevenirlo. Alcuni dati che riportiamo in questo articolo sono estratti dalle ricerche condotte dai loro docenti.

Che cos’è l’autolesionismo

L’autolesionismo tecnicamente è l’atto di farsi volontariamente del male, per esempio facendosi tagli o procurandosi abrasioni o bruciature sulla pelle, oppure sbattendo contro oggetti duri o appuntiti appositamente per farsi male.

Tagliarsi in diverse parti del corpo (generalmente punti poco visibili come la pancia o le cosce, ma molti si feriscono le mani e le braccia) è una delle forme di autolesionismo più comuni tra chi decide di farsi male intenzionalmente.

In genere 1 persona su 3 che si procura delle lesioni da sola, lo fa in modo così grave da aver bisogno di un intervento medico e solo il 6,5%, stando alle più attuali ricerche, viene effettivamente trattato.

Ci sono anche forme di autolesionismo che sembrano più innocue perché non lasciano segni permanenti, ma nascondono un profondo disagio, come per esempio strapparsi piccole ciocche di capelli (fa malissimo e poi ricrescono).

Perché alcune persone decidono di farsi del male?

Possono esserci moltissime ragioni. C’è chi lo fa perché è depresso, o ansioso, o si sente emotivamente anestetizzato e si procura dolore per “sentire” qualcosa. L’autolesionismo è un modo di gestire sentimenti intollerabili, per dimostrare a se stessi di non aver paura del dolore. Oppure per sublimare un disagio interiore, trasformando il dolore psichico in dolore fisico.

Alcuni, ma si tratta di una ristretta minoranza, dicono che lo fanno semplicemente perché gli piace. L’espressione “strapparsi i capelli per la disperazione” va abbastanza vicino al motivo per cui alcune persone si fanno del male: chi è disperato, sfiduciato, depresso, può finire per farsi del male.

A prescindere dalle motivazioni, chi si fa male da solo mette in pratica un meccanismo distorto per reagire a un malessere, procurandosi un altro tipo di malessere.

Un problema di autostima

Uno studio del 2014 su studenti universitari divisi in due gruppo, autolesionisti e non, a cui è stato chiesto di tenere un diario delle proprie emozioni, ha scoperto che gli autolesionisti avevano livelli di autostima estremamente più bassi rispetto ai loro coetanei: gli autolesionsti si consideravano troppo grassi, o stupidi, o falliti.

L’autolesionismo è contagioso

Hai letto bene, ma non si trasmette come il raffreddore o l’HIV, bensì come il suicidio. Per un fenomeno che gli esperti stanno ancora studiando, se in un’area geografica avviene un suicidio è probabile che ne succedano altri in breve tempo, per effetto dell’emulazione.

Viene definito Werther effect, perché è ispirato al protagonista de I dolori del giovane Werther di Goethe, che si strugge per un amore non corrisposto e si toglie la vita. Succede anche con alcuni disordini alimentari, come l’anoressia e la bulimia, con l’autolesionismo è più o meno lo stesso: nelle classi o nei luoghi di lavoro in cui c’è una persona autolesionista, è probabile che ce ne siano altre.

Il solo fatto di parlarne o darne rilevanza sui media pare che peggiori la situazione, anche se alcune ricerche scientifiche, tra cui una condotta nel 2010 dai professori Amanda Purington e Janis Whitlock alla Cornell University, rivelano che invece leggere articoli che spiegano come uscirne, interviste di psicologi, fonti che parlano del problema in modo autorevole e informativo, può aiutare ad avere una visione più consapevole del problema, riconoscerlo e farsi aiutare.

È un atto meno privato di quel che pensi

Chi si fa male spesso lo fa in privato, quando nessuno lo vede. Una volta era difficile aprirsi e parlarne con qualcuno. È un tabù sociale, quindi è abbastanza normale che chi lo pratica non vada a dirlo ai quattro venti. Internet e l’anonimato dei forum hanno permesso agli autolesionisti di uscire allo scoperto, confrontarsi con altre persone che hanno lo stesso problema, aprirsi ma anche fomentarsi a vicenda: sui forum incontri persone con differenti problemi psichiatrici, diagnosticati o meno, che magari non hanno tutta questa voglia di tenderti una mano, anzi ti riversano addosso il loro malessere. Puoi immaginare che un gruppo in cui si discute di autolesionismo non sia un ambiente sanissimo da frequentare, per chi vive già un profondo disagio. Meglio starne alla larga.

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Gaia Giordani
WEB EDITOR
Copywriter e blogger della prima ora, divoro serie TV e nel tempo libero sforno muffin al cioccolato. Ho scritto da poco il mio primo romanzo. Cintura nera di karate. Ho un'insana passione per gli squali, una volta ne ho accarezzato uno. 99% digital, 1% human.